GIOIE E DOLORI DEL PERDERSI IN TENET
Dopo numerosi rimandi, Tenet, l’ultima fatica di Christopher Nolan arriva nei cinema italiani a partire da mercoledì 26 agosto
di Davide Colli
Quasi per uno scherzo del destino, l’azione in Tenet, nuova pellicola di Christopher Nolan, inizia proprio tra quelle poltroncine di una sala (non cinematografica) che tanto sono mancate al pubblico durante questo periodo di pandemia. E, se aggiungiamo che, all’interno della stratificata e misteriosa missione nella quale sono coinvolti i personaggi di John David Washington e Robert Pattinson, ricorre in una determinata fase la parola lockdown, la cosa assume contorni ancora più strani.
È innegabile che tra i settori più colpiti di questa imprevedibile piaga ci sia indubbiamente l’industria hollywoodiana e Tenet, l’undicesimo lavoro di Christopher Nolan, sembra caricarsi sulle spalle, volente o nolente, il ruolo chiave di salvatore del mercato dell’intrattenimento audiovisivo sul grande schermo, posizione avvalorata dalla capacità del regista di sfruttare al meglio la spettacolarità che infonde anche alla più ordinaria delle situazioni.
Con questo ideale fisso in mente, l’autore di Inception e Interstellar plasma un congegno narrativo ostico da fruire, volutamente ed estremamente complicato. Il racconto, per tutta la pellicola, è caratterizzato dai tratti distintivi della sua cifra stilistica elevati all’ennesima potenza, come innumerevoli spiegazioni dal ritmo ammorbante e nozioni di fisica quantistica dalla dubbia comprensibilità.
Lo spettatore, fin dai primi istanti, viene lasciato a sé stesso, in quello stato di smarrimento dal quale la pellicola trae il suo fascino, e invitato a stazionare e perdersi nei vuoti di cui lo svolgimento del racconto è disseminato. Tale destino è condiviso dagli stessi personaggi di Tenet, che indagano continuamente sul proprio ruolo all’interno di un gioco contorto e sfilacciato ad opera della mente di Nolan che, con estrema consapevolezza della reputazione che il suo cinema si è guadagnato nell’ultimo decennio, espande le zone d’ombra e le incognite della narrazione.
Proprio questa estrema cognizione del proprio operato e della sua percezione verso il grande pubblico ha portato Nolan a creare un proprio doppio all’interno di Tenet, il misterioso Sator interpretato da Kenneth Branagh (il cui nome, oltre a richiamare l’iscrizione latina dell’omonimo Quadrato dal quale viene ripreso anche il titolo, significa, in senso figurato, padre e creatore).
Tenet si pone, quindi, come la sfida tra un personaggio privo di alcun nome (Washington) e colui che ha plasmato la realtà in cui si muove (Branagh) allo scopo di individuare chi dei due sia il reale protagonista del racconto, portando l’autore dietro a esso a chiedersi parallelamente se a muovere le fila di un prodotto audiovisivo sia il regista della suddetta opera o lo spettatore, chiamato inizialmente a smarrirsi nei meandri dell’intreccio, per poi prendere il controllo della materiale esperito e modificarlo in base alla propria interpretazione. Il risultato finale sembra proprio essere quella consapevolezza che Nolan, nel corso degli anni, sembra aver raggiunto e che in questa sua ultima opera palesa con orgoglio.
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