SPLENDORE – VIVIAMO UNA REALTÀ CHE È ALTROVE
Nel primo EP di Splendore ci sono tanti software autogenerativi perché, lui dice, “mi piace l’idea di non essere il compositore della mia musica”
di Emma Cacciatori
Artista e dj, Mattia Barro, in arte Splendore, è anche produttore del collettivo e etichetta Ivreatronic, fondati con Cosmo, Foresta e Enea Pascal. Ci incontriamo su Zoom, lo stesso “luogo” della presentazione del suo short movie Ci amavamo what happened? in occasione dell’uscita dell’ EP OMG, Am I Really Feeling These Feelings I’m Feeling Right Now?. Un momento di fruizione collettiva online che fa riflettere su quali siano diventati i nuovi luoghi di ritrovo in questo periodo distopico. Splendore è così: con la sua musica (e i suoi visual) crea tanti stimoli, che ti arrivano addosso come delle mine in un videogioco arcade.
Che cosa hai voluto evidenziare in questo tuo ultimo lavoro? Facendo musica c’è sempre una differenza tra la parte umana e la parte artistica. A livello artistico volevo fare un disco che, nonostante fosse molto conciso (dura 30 minuti, NdR), avesse tanto dentro. Volevo fare una cosa proprio densa, che avesse tanti stimoli, tante idee, tanti generi. Volevo che fosse una cosa massimalista. Dal lato umano avevo bisogno di un EP che desse, a me, come Mattia Barro e come Splendore, un punto di partenza per allargarmi verso altro. Lo vedo come un punto di appoggio da cui poter prendere tutte le strade che voglio, dove tornare in qualunque momento. Ho sentito il bisogno di mettere uno scoglio in questo mare in cui potermi fermare. È come se fosse una boa gigante: ovunque andrò, so comunque qual è stato il punto di partenza.
Il tuo ultimo lavoro OMG è presentato come una «raccolta di big data da uno smartphone hackerato». Nel 2020 si può parlare di fine dell’autorialità? Non so se sia la fine dell’autorialità o se sono solo io che sto rubando all’autorialità altrui. Però io sono un fanatico della collage art, del plunderphonics, tutte cose in cui si può rubare qualcosa agli altri e riutilizzarla in qualche modo. Alla fine mi pare ci sia un detto, non mi ricordo più di chi, che dice che se rubi, ma lo trasformi in qualcosa di diverso, non è più rubare. Penso che il mondo sia diviso tra chi sta andando oltre a questi problemi, per esempio praticando l’idea del copyleft, di una banca dati comune a tutti e per tutti, e invece chi, più conservatore, cerca di mantenere uno status quo di come si fa musica, di come bisogna pensare la musica e così la vita e il diritto d’autore.
Mi sembra chiaro da che parte sta Splendore… Se vai a prendere qualcosa che non hai, che non sai fare per mille ragioni, per cultura o per mancanza di mezzi, lo fai per costruirci sopra da quel punto di partenza. Il fatto che il rap abbia costruito un universo partendo da una musica che esisteva già non autorizza a reputarlo un genere minore. Lo stesso vale per tutto il genere plunderphonics, che è molto alto se vogliamo parlare di un’astrazione intellettuale. Sotto questo punto di vista, rubare è bellissimo. Ho sempre rubato in vita mia, sempre ruberò. Ho rubato in tutti gli Autogrill, hanno dei costi folli, dai. Che stiamo a dì? (ride, NdR).
Nel tuo prenderti questo spazio ci ho rivisto molto della ricerca artistica di John Cage, per esempio nel suo sbeffeggio sull’uso degli strumenti musicali classici. Ma allo stesso tempo, ci trovo un enorme rispetto per la dimensione affettiva umana e una ricerca interiore e sociologica. Sbaglio? C’è una parte di ironia che torna, ed è un leit motiv dei pezzi pop di questo EP. Per esempio, ho fatto utilizzo ironico delle chitarre. Io arrivo dalle chitarre: ho deciso che non le avrei suonate in questo disco, ma lo avrei fatto fare a un software. Tutte suonano volutamente parti impossibili per uno strumentista. Soprattutto quella di There’s nothing of you anymore: è una parte di chitarra acustica che se tu ti dovessi mettere a suonarla, diventeresti stupido, perché insensata. E a me fa molto ridere sentirla, perché è un utilizzo ironico di un mezzo classico, come la chitarra. Non sono un “campione” ma so suonare, avrei potuto farlo ma mi piaceva l’idea di non farlo. Nel disco c’è spesso questa cosa, magari figlia dell’indeterminismo di Cage e di tanti altri. Ci sono tanti software autogenerativi all’interno di questo lavoro che arricchiscono e creano texture nei brani perché mi piace l’idea di non essere il compositore della mia musica.
Torniamo sulla non autorialità di prima… Sì. In una società in cui abbiamo una falsa iperscelta, non è male l’idea che anche nella musica tu abbia l’iperscelta di poter scegliere qualsiasi cosa con qualsiasi strumento. Del resto, con i software di adesso puoi farti un’orchestra in camera. All’interno del mio lavoro ci sono dei momenti in cui l’algoritmo comanda sulle mie scelte. Questa cosa mi fa ridere. E se mi fa ridere è bene: vuol dire che ho fatto una cosa che mi piace, creare qualcosa che ironizzi su tutto ciò che stiamo vivendo. È talmente tutto paradossale che non possiamo né prenderci sul serio, né adattarci come sta facendo magari la musica mainstream da classifica. C’è stato un appiattimento della musica, in Italia, quantomeno, perché si è andati sull’unica soluzione economica possibile. Dato che questo disco non ha velleità economiche, velleità di classifica, l’unica soluzione che era coerente con il mio percorso, con la mia ricerca, era prendermi per il culo. E non prendere per il culo. Penso che la differenza sia lì. Quando tu fai musica di merda e fai una roba pop “demmerda”, perché fai del pop fatto male solo perché funziona, mi stai prendendo per il culo, ma non ti stai prendendo per il culo. C’è differenza tra l’autoironia e pensare che gli altri siano stupidi. Io credo nell’autoironia in un mondo in cui tutti credono che siano gli altri a essere stupidi. Questo è un po’ il gioco.
Ascoltando il tuo ultimo EP mi sono ritrovata in un “nonluogo” 2.0, quello che per Marc Augè poteva essere definito anni fa “Spazio in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione“. Come un enorme abbraccio collettivo e impersonale, una grandissima chat di MSN in cui, mentre sentivo i suoni mi arrivavano addosso emoji di persone e messaggi, senza toccarmi mai. Forse ormai siamo in un non mondo, probabilmente, più che un non luogo. Se ci pensi camminiamo in città in cui non possiamo camminare, entriamo in negozi in cui non possiamo entrare. Siamo nella rivalutazione del luogo come spazio. La società di adesso è stata un panopticon globale, dove ognuno sbirra sull’altro se esce di casa a correre e fa una denuncia alla polizia se fa una cena in casa, quindi siamo tutti che osserviamo tutti e intanto siamo osservati da tutti. Penso che ci sia un momento di confusione storica sui luoghi, proprio in generale, senza poi entrare nell’ottica che, stando chiusi in casa, il nostro luogo diventa digitale. Il digitale noi lo affrontiamo attraverso uno schermo e quindi, forse, più che in un non luogo, siamo in una eterna eterotropia di Foucault, siamo sempre in un posto irreale, in cui stiamo dentro senza starci dentro e viviamo una realtà che è altrove. Alla fine Second Life aveva ragione. Doveva soltanto aspettare una pandemia per realizzarsi. Se noi vediamo i nostri parenti su Zoom e basta, mi viene da chiedermi, qual è rimasto “il luogo”? Se i non luoghi erano degli spazi in cui non ci toccavamo, adesso casa mia è un aeroporto, ha la stessa logica, sono qua, non c’è contatto. È molto difficile capire, “geograficamente” il mondo di adesso. Penso che ci siano tante possibilità di leggere i luoghi, i non luoghi, le eterotopie. In questa logica qua, mancano molto le utopie. Abbiamo un po’ perso quella capacità lì, di creare un oltre.
Prima di salutarci, dimmi al volo tre cose belle che ti sono capitate in questo ultimo mese. La prima, pensare, fare e creare il film performativo per presentare il mio ultimo EP in questo mese. È una cosa che non avevo mai fatto, che non è nelle mie corde, non era una cosa di cui ero capace e l’ho fatta. E ne sono orgoglioso. Poi, ieri ho sentito un pezzo di Slowthai che mi ha gasato senza motivo, nhs. L’ho ascoltato camminando alle 10, quindi proprio nell’orario di chiusura del mondo, lockdown, rientrando a casa, e l’ho ascoltato tre volte di fila. Quindi vuol dire che è un pezzo che mi è piaciuto. Infine, c’è un parco vicino casa. Stavo uscendo da psicoterapia una mattina e, attraversando il parco, avevo le cuffiette e stavo pensando ai cazzi miei e ho visto cosa c’era dentro il parco: c’era un camioncino, sai quelli che fanno i lavori all’interno dei parchi. È uscito sto tipo e ha iniziato a pestare le foglie per terra e mi sono accorto che era arrivato l’autunno in quel momento lì. E guardando ho detto: «Cazzo, ma questo parco è bello allora così». E adesso ci vado tutti i giorni perché questo parco in questa stagione è bello. Le altre stagioni, no. Neanche in primavera è bello. Ma in autunno ha una magia. Sarà forse perché è l’unico parco che posso vedere in zona, però ho detto: «Mi piaci, sì, tu».
Splendore su IG
La foto in alto di Splendore è di Thanyy