ONE NIGHT IN MIAMI E LA MESSA IN DISCUSSIONE DELLA QUESTIONE RAZZIALE
L’esordio alla regia di un lungometraggio dell’attrice Regina King, basato sull’omonima pièce teatrale del 2013 ad opera di Kemp Powers, disponibile su Amazon Prime Video, potrebbe svolgere il ruolo di frontrunner nella prossima stagione dei premi.
di Davide Colli
In un’annata cinematografica atipica come quella appena trascorsa, era impossibile che il periodo della così detta award season, che vede con l’assegnazione dei premi Oscar la sua coronazione e conclusione, non subisse variazioni, tra cui un netto posticipo. Difatti, a fine gennaio, seppur si possano supporre quali siano i titoli con maggiori chance, è ancora troppo presto per poter definire con una certa precisione i vincitori e quali i vinti.
Sicuramente, però, One Night In Miami ha le carte in regola per poter entrare in gioco prepotentemente all’interno di molte categorie, a cominciare proprio dall’argomento principale che va ad affrontare – la questione razziale – e dalla modalità con le quali riesce a sviscerarlo. Il film è ispirato a eventi reali ed è tratto da una piéce teatrale del 2013 a opera di Kemp Powers. Il contesto spazio-temporale è la notte del 25 febbraio del 1964, quando Cassius Clay festeggia la propria proclamazione a campione del mondo dei pesi massimi in una stanza dell’Hampton House Motel insieme a Malcolm X, Sam Cooke e Jim Brown. La condizione della comunità afroamericana nel periodo della segregazione razziale, il significato della religione islamica e della produzione artistica per le personalità coinvolte sono solo alcune delle macrotematiche che vengono snocciolate in poco meno di un paio d’ore.
Il film riesce a non risultare minimamente ammorbante e non imbocca la facile strada del patetismo, della commiserazione e del ricattatorio. La più decisa nota di merito di One Night in Miami consiste senz’altro nella scelta di un approccio inusuale nei confronti di un materiale così sensibile, svelando debolezze, incongruenze e contraddizioni esistenti tra i vari esponenti della comunità black, incorporati in questo caso da quattro icone solidamente interpretate. Le discrepanze di visione tra i personaggi, in particolare tra Malcolm X e Sam Cooke (rispettivamente Kingsley Ben-Adir e Leslie Odom Jr., sicuramente in odore di qualche nomination significativa), vengono brillantemente scoperte e messe alla luce da un campionario di dialoghi pregni di un delineato commento socio-culturale, ma che al tempo stesso si dimostrano estremamente accessibili nella fruizione e nella comprensione da parte del grande pubblico.
Lo sguardo di Regina King, inoltre, riesce nell’ardua impresa di non farsi schiacciare dall’impostazione fortemente teatrale dell’opera di partenza e dalla fitta composizione dialogica del film. Difatti, i codici espressivi del teatro, che normalmente presentano un effetto normalizzante nei confronti della messa in scena filmica, in One Night in Miami si fanno meno opprimenti, incontrandosi a più riprese con i codici espressivi della settima arte in un pacifico connubio tra i due medium. Le sequenze in cui la costruzione della scena si fa più articolata e meno convenzionale, all’interno delle quali l’immagine si sostituisce alla sola parola, si dimostrano anche i momenti di più ampio respiro.
L’intento di Regina King con One Night in Miami è di fotografare e cristallizzare, a cavallo tra realtà e fiction, un periodo chiave della battaglia razziale, privandosi il più possibile di zone d’ombra e d’opacità onnipresenti nella rappresentazione cinematografica imperante di tale questione, si può dire indubbiamente riuscito.
Nella foto in alto: Kingsley Ben-Adir è Malcolm X in ‘One Night in Miami’, foto di Patti Perret/Amazon Studios
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