CAMERA WORK – SIMONE BIAVATI
‘Camera Work’ è una serie di interviste ai fotografi italiani più attivi in ambito musicale come Simone Biavati, protagonista della quarta puntata
di Futura 1993
Simone Biavati è un giovane fotografo milanese formatosi all’Accademia di Brera. Inizia la sua carriera quasi come un fan, scattando foto ai concerti dei propri idoli musicali, ma la sua passione ed il suo talento gli hanno fatto fare strada, dato che negli ultimi anni ha immortalato i live di artisti del calibro di Willie Peyote, Frah Quintale, Gemitaiz, Calcutta, Sfera Ebbasta, Luché, Noyz Narcos, oltre a collaborare con realtà come Bomba Dischi, Thaurus e Universal.
In questa nuova puntata di “Camera Work”, Simone ci ha svelato qualche segreto in più riguardo al suo lavoro, oltre a delle preziose chicche da esperto che per una bella fotografia non guastano mai.
La passione per la fotografia è per te un’eredità familiare. Se così non fosse stato, ti avremmo comunque trovato qui a scattare istantanee oppure avevi anche altri sogni/ambizioni da piccolo?
Credo di sì, se non attraverso foto avrei comunque voluto raccontare quello che mi sta attorno con qualcosa, cosa che comunque provo a fare anche con la musica con il mio gruppo, gli HYPNO. Non ho mai avuto particolari sogni e ambizioni da piccolo e tutt’ora, darmi un obiettivo “irraggiungibile” mi distoglie dal lavorare e fare quello che mi piace invece che spronarmi. Se poi attraverso il lavoro di ogni giorno raggiungerò dei traguardi ben venga, ma non ho mitizzazioni.
Cosa ti ha condotto a scegliere proprio la fotografia musicale, fra i tanti rami che l’ambito ti offre?
Mi è sempre piaciuta molto la musica. Inizialmente andavo a scattare semplicemente gli artisti che ascoltavo di più anche per vedere un po’ di live gratis. Col tempo si è costruita una rete che ha reso il tutto molto più veloce, permettendomi di entrare quasi a qualsiasi concerto per lavorare. Non voglio, per quanto mi piaccia, rimanere attaccato solo a questo immaginario, ovvero quello dei live e della musica. Proprio per questo, anche agli eventi, provo sempre a fare qualcosa di diverso dal normale, o semplicemente scatto altro.
Oltre dalla fotografia, da quali altre forme d’arte ti lasci ispirare per comporre i tuoi scatti?
Pittura, musica, cinema, tanto cinema… Un po’ tutto, insomma. Non solo l’arte ispira altra arte, certamente aiuta a capire tutta una serie di cose. Un’ideapuò nascere anche solo da una chiacchierata una sera con gli amici, magari anche quella è arte!
Come ti prepari per un set o un live? C’è qualche azione che fai svolgere anche al tuo soggetto?
Di solito provo a conoscere al meglio la persona con cui mi sto interfacciando, se prima di scattare si riesce anche a parlare una mezz’oretta del più e del meno viene tutto più facile. Per ordine mentale e anche per il cliente preparo delle classiche moodboard con qualche riferimento, per far capire cosa ho pensato per loro e se può andare bene, includendo scatti più “standard” ed altri personali e particolari. Al soggetto spesso, durante gli scatti, chiedo di chiudere gli occhi e di guardare poi in camera al mio tre. È per avere uno sguardo più naturale e tagliente, e con l’analogico per evitare che vengano con gli occhi chiusi.
In passato hai definito il fotografo come una persona “invisibile”, che rimane quindi spesso nell’ombra. Quali sono le soddisfazioni maggiori che questo approccio ti ha dato?
Non trovo sia una cosa negativa essere “invisibili”, soprattutto in questo momento storico dove l’apparenza e l’apparire sembrano essere la cosa più importante. Molte delle soddisfazioni che ho avuto dal lavoro probabilmente sono proprio grazie a questo “essere invisibile”. In certi ambienti è giusto che si scordino di te, e quando nei backstage l’artista riesce ad essere naturale la foto viene quasi da sé.
Hai affermato che, già dall’inizio della tua carriera, molti dei live che fotografavi erano di artisti di cui eri un fan. Come ti comporti in queste situazioni lavorative? Sei una persona che si espone, esprimendo la sua stima verso un artista oppure rimani distaccato senza mostrare troppo la tua passione per chi si trova sul palco?
Fin dai primi live ho sempre provato ad essere il più professionale possibile, senza neanche essere un professionista. Ho cercato di mantenere sempre il profilo basso, complimentandomi con gli artisti solo in casi particolari dove la situazione lo permetteva. Non volevo mi vedessero come il fan che era venuto a far le foto, anche perché quando avevo iniziato ho scoperto essere un po’ un trend in partenza. Sono stato facilitato ad agire così perché non ho mai mitizzato gli artisti, sicuramente ho capito fin da subito che dietro ad ogni artista c’è una persona, la cosa mi ha aiutato molto.
Oggi con i social tutti si sentono un po’ fotografi. Quali sono per te gli elementi stilistici che fanno la differenza fra una foto comune ed uno scatto artistico?
Una foto comune può essere uno scatto artistico. A differenza di ciò che pensavo qualche anno fa, sono molto felice che ognuno abbia la possibilità di esprimersi con i social attraverso le foto. Ognuno poi ha le proprie aspettative e obiettivi: le pagine di fotografi van prese in proporzione a ciò che propongono, è inutile criticare la pagina di un ragazzo che magari ha iniziato da poco e ha ancora tantissimo da imparare, ma soprattutto stiamo parlando dei social, non di una galleria, contestualizziamo sempre bene il dove leggiamo e cosa. Non mi sento di poter giudicare che elementi distinguono uno scatto comune da uno artistico, sicuramente non il mezzo (vedi Fontanesi che scatta con iPhone), non una color, non una tecnica. Magari un gusto estetico, ma anche quello è così soggettivo che chi sono io per dire cosa è bello e brutto, è un concetto già passato da tempo quello dell’arte bella e basta no? Personalmente mi piace un po’ tutto, dagli scatti super tecnici, a chi sperimenta, a chi lega un racconto ad una foto…
Un tuo geniale progetto recente, Retina, consiste nel fotografare lo schermo del computer a pochi cm, trasformando i pixel in una tela. Come ti è venuta quest’idea?
È venuta fuori dopo qualche bicchiere di troppo a Natale e grazie al concerto di Mecna sulle Alpi. Mi mancava tanto scattare un concerto e mi son detto: «Perché non provare così?». Non c’è nessun altro ragionamento dietro, chiaramente in base al lavoro che faccio ricerco un’estetica, mi prendo la libertà (attraverso color e composizione) di schernire qualche soggetto o provare ad esaltare un’emozione che secondo me alcuni artisti volevano comunicare, ma non c’è nessuna critica o meta-ragionamento. Io penso a fare le cose che mi piacciono e che possano essere belle su tutti i piani, se ti piace perché ci sono due colori complementari bene, se è perché c’è un riferimento artistico particolare pure! Comunque dando a Cesare quel che è di Cesare chiaramente non ho inventato niente, Schifano scattava lo schermo già negli anni Settanta e forse già qualcun altro prima di lui.
Cosa consiglieresti a un ragazzino che vorrebbe intraprendere il tuo stesso percorso lavorativo? E al 18enne Simone Biavati?
Di provare a capire se davvero vuole farlo o se è solo per vedere gli artisti dal vivo per farsi una foto con loro. Di studiare tanto, vedere tanti film, vedere tante foto, ascoltare tanta musica, essere il più permeabile e sensibile a tutto ciò che hanno attorno: a cercare le foto sempre, anche senza macchina, già pensando ad un possibile bianco e nero ad un diaframma con cui scattare e a come comporre l’immagine. Non avere fretta, soprattutto sul discorso economico, i risultati arrivano col tempo. Coltiva tutti i contatti, più semini più raccogli. Firma i contratti e non fidarti di tutti, soprattutto di quelli che sembrano più simpatici e carini. Magari son tutte scontate però sono degli evergreen, tanto a 16 anni non ascolti nessuno comunque. Al me di diciott’anni direi le stesse cose.
Visti i continui sviluppi tecnologici, qual è secondo te il futuro, la nuova frontiera della fotografia artistica?
Secondo me l’analogico, come già si è visto, avrà un ritorno. Molti della mia generazione e precedente (e spero futura) si renderanno conto che scattare in analogico significa (anche se poco) comprendere un minimo come funziona il meccanismo. È una cosa che nella nostra generazione manca molto, a volte mi sento di non saper neanche svitare una lampadina e il provare a capire meccanicamente come funziona un determinato mezzo, è una cosa che vedo in molti miei coetanei, un po’ per contrastare questa ignoranza totale nell’utilizzo di tutto ciò che abbiamo attorno. In ambito artistico come sempre è stato dopo un certo periodo l’utilizzo non convenzionale del mezzo continuerà a suscitare fascino e ispirazione. Per il resto ovviamente le digitali saranno sempre di più e spero che tutti possano scattare avendo una macchina buona, anche se l’importante non è il mezzo quanto la cultura visiva e sensibilità di chi c’è dietro!
Testo di Paola Paniccia
Nella foto in alto: Simone Biavati, foto di Pietro Fanti
Le altre interviste di ‘Camera Work’
Francis Delacroix
Silvia Violante Rouge
Roberto Graziano Moro
Futura 1993 è il primo network creativo gestito da una redazione indipendente. Cerca i nostri contenuti sui magazine partner e su Instagram e Facebook!
Dello stesso autore
Futura 1993
INTERVIEWS | 10 Maggio 2022
TREDICI PIETRO – MATURARE NEI SOLITI POSTI, TRA I SOLITI GUAI
INTERVIEWS | 2 Dicembre 2021
GIORGIO POI – DIRE LA VERITÀ
INTERVIEWS | 23 Luglio 2021
CAMERA WORK – MANUEL GRAZIA
INTERVIEWS | 29 Aprile 2021
RANDOM – UN PASSAGGIO SULLE NUVOLE
INTERVIEWS | 19 Marzo 2021
CAMERA WORK – ROBERTO GRAZIANO MORO