LAILA AL HABASH – VINCI QUANDO ESCI DALLA GARA
Un EP morbido e accogliente, ma capace di sporcarsi di vita ed emozioni: la giovane artista di casa Undamento si mette in gioco con ironia, onestà e limpida profondità, dando vita a canzoni al tempo stesso intense e lievi, dal sound fluido e meticcio
di Giulia Zanichelli
Classe 1998, metà romana e metà palestinese, qualità e carisma da vendere: Laila Al Habash ci ha fatto camminare sul suo Moquette, primo progetto discografico uscito. Cinque brani scritti nell’ultimo anno e mezzo, diretti e pungenti, dove testi personali si appoggiano su produzioni curate da Niccolò Contessa e Stabber, due icone rispettivamente dell’universo indie e di quello rap, che certificano il talento di uno dei nomi di cui continueremo certamente a sentir parlare nei prossimi anni.
Quando hai iniziato ad avvicinarti alla musica?
Ho avuto la fortuna di iniziare a studiare musica – facevo lezioni di pianoforte – quando avevo circa quattro anni, quindi non ricordo un momento in cui non stessi su uno strumento. Poi, verso i 12 anni, ho cominciato chitarra elettrica, avvicinandomi al mondo della musica rock e alternativa. Le prime canzoni sono nate per scherzo, a tempo perso: quando studiavo gli esercizi di tecnica per pianoforte li riarrangiavo. Non avevo idea di cosa fosse una canzone, mi mettevo semplicemente lì e registravo, mi veniva naturale. Verso i 18 anni ho incontrato Stabber, il mio produttore. Lui è stato il primo a dedicarmi del tempo, mi ha insegnato tante cose.
Sei metà romana e metà palestinese: quanto senti forte in te questa doppia cultura?
Sono palestinese da parte di mio padre, ma sono nata e cresciuta in Italia, mi sento totalmente italiana. Il punto forte dell’essere “mista” è che conosco molto bene le due culture, quella araba e quella italiana, le comprendo entrambe e questo mi permette di avere una mentalità più elastica, più aperta. Mi sento romana soprattutto in quanto ad attitude, ora che abito a Milano mi rendo conto ancora meglio che il tipo di umorismo, di ironia, di approccio alla vita che hanno i romani è unico, nei suoi lati positivi e in quelli negativi.
Moquette è il tuo EP di debutto per Undamento: un titolo evocativo, che subito rimanda alla mente qualcosa di morbido ma anche sporco, nel senso di usato, di “camminato”.
Mi è piaciuto subito questo nome, l’idea mi è venuta passeggiando e l’ho sentito calzante. Mi piace anche il fatto che ogni persona con cui parlo mi dica ciò che questo nome gli evoca, che ognuno abbia un personale attaccamento emotivo alla parola. Io la associo alle vacanze, quando vado dai parenti arabi e dormo in hotel vecchi e polverosi. Mi ricorda questa dimensione chiusa, personale, ristretta. Volevo dare l’idea di una stanza piccola e accogliente, ma il mio EP ha toni anche malinconici e scuri, e Moquette racchiude quella sensazione di comfort ma “sporco”.
Hai lavorato alla produzione con Niccolò Contessa e con Stabber. Due collaborazioni che rappresentano le due facce musicali del tuo mondo sonoro.
Assolutamente sì. Una volta Niccolò mi ha detto: «Laila, se tu riesci a trovare la chiave di Noys Narcoz e Ornella Vanoni hai vinto!». Ed effettivamente è questo il mio obiettivo, far convivere quelle due realtà. È stata una sfida amalgamare le due personalità che vivono in me nella musica: quella legata alle sonorità in cui si specchia molto il progetto di Contessa (I Cani), e quella più pop, più dark che si collega a Stabber. Io vengo dall’indie e dal cantautorato, però mi piace anche molto il rap e l’hip hop, soprattutto quello anni Novanta con il suo storytelling. Mi sono divertita, ma è stato anche un banco di prova, visto che è il progetto con il quale ho deciso di presentarmi al pubblico. Sono molto soddisfatta di come è andata.
Veniamo alle cover: come nasce l’idea del collage, che hai scelto anche per i singoli?
L’artwork è di Caterina Adele Michi, un’illustratrice bravissima. Per molti anni ho fatto collage a mano, facevo illustrazioni per siti musicali. Il suo stile mi sembrava molto simile al mio, ma la sua marcia in più è il metterci qualcosa di fresco e originale. È stata molto brava nel sintetizzare le diecimila personalità che mi abitano! Per esempio, sono una grande fan di Raffaella Carrà, quindi nella cover c’è anche lei. Secondo me tutte le copertine, EP e singoli, vanno guardate insieme, da lontano: hanno mille influenze diverse ma al tempo stesso risultano armoniche, organiche e coerenti, come credo sia la mia musica.
C’è un fil rouge che unisce le tracce, «un certo senso di inadeguatezza che sfocia in ansia». È una sensazione che ti accompagna spesso e che hai esorcizzato scrivendo?
Non tanto esorcizzato, quanto buttato fuori. Ci ho fatto pace, quella componente vive in me come in tante altre persone, scriverne mi ha fatto stare meglio. È stato come covare qualcosa per tanto tempo e poi incontrare l’amico di sempre e raccontarglielo: magari non arrivi a una soluzione, ma solo il fatto che ne hai parlato serve a ridimensionarne il peso.
«Più cerco di essere eccezionale più mi ritrovo qui ad annaspare, Quello che mi chiedo è come fate a reggere?» canti in Brodo. Pensi che ci sia una ricerca quasi ossessiva dell’essere il migliore? Anche nel mondo della musica?
Credo che nella musica sia quasi fisiologico cercare – giustamente – di risaltare. Nel brano il discorso è più generale, volevo raccontare questo sentirsi sempre in dovere di eccellere in ogni ambito, come se si fosse sempre in una gara in cui tutti sono iscritti ma non si sa bene cosa si vince. La morale, secondo me, è che alla fine vinci quando smetti di stare in gara, con te stessa in primis, quando capisci che è inutile. Quando smetti di avere questo mindset, hai vinto.
Nella foto in alto: Laila Al Habash, foto di Tommaso Biagetti
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