VISIVA #08 – NAAMA TSABAR, VEDERE IL SUONO
Naama Tasabar mette al centro della sua produzione il suono e il suo uso sociale, mettendo in discussione alcuni ‘a priori’ di generi e figure musicali
di Emma Cacciatori
‘Visiva’ è una rubrica che si occupa di mostre, eventi, progetti sul territorio e multimediali legati all’arte. Più che fornire il rendiconto di quanto si sa che c’è, fa vedere quanto sta per esserci, lasciando immaginare quanto sta per cambiarci.
Farsi un’idea di chi sia Naama Tsabar è “semplice”: al momento è presente alla collettiva Fantasy America, presso il The Andy Warhol Museum a Pittsurgh (fino al 30 agosto), oppure, se siete più comodi a raggiungere New York, suoi lavori si trovano in questi giorni in altre due collettive: a Ellis Island (The Jewish Museum of Belgium, fino al 30 agosto) e nel museo all’aperto ricavato tra i binari della vecchia sopraelevata West Side Line (The Musical Brain, High Line, fino a marzo 2022).
Non amate viaggiare? Per questo ci siamo noi. Naama Tsabar, nata in Israele nel 1982, ma da tempo residente a New York, ha esposto le sue opere in alcuni dei più prestigiosi musei di arte contemporanea negli Stati Uniti e in Europa. Per le sue installazioni e performance utilizza più forme artistiche: al centro della sua produzione c’è il mondo dei suoni, il cui uso sociale viene decostruito e smascherato utilizzando, in modo solo apparentemente paradossale, soprattutto la fotografia e la scultura, oltre al corpo, al suono della sua voce e degli oggetti .
Gli spazi, umani e naturali sono sonori. E i suoni, umani e naturali, sono alloggiati nello spazio. Il silenzio dei passi sulla Luna o quello abissale dell’universo sono “innaturali”, terrificanti come i rumori decontestualizzati che sentiamo nel buio. Allo stesso modo, i suoni sono codificati nei linguaggi, in un ordine del discorso che non riguarda solo le parole, ma ogni forma di sonorità, che è, rimane e rimanda a una grammatica dell’immaginario e dei comportamenti profondamente maschile.
Prendiamo il mondo della musica, dove, per esempio, la voce e la gestualità femminile sono ancora in gran parte associate alla bellezza e alla melodiosità, mentre generi musicali come il rock richiedono, salvo eccezioni, la messa in scena della potenza, strafottente o nichilista, del maschio. Naama Tsabar prova a smontare questi luoghi comuni e lo fa in due modi: trasformando il suono in immagini, gesti, sculture, ma, nello stesso tempo, reinventando nuove sonorità.
Prendiamo, per esempio, gli ingredienti del rock, i suoi oggetti, i suoi spazi, le posture dei suoi protagonisti. E partiamo proprio da un gesto iconico che rappresenta, quando c’è, la sua rabbia sociale: la chitarra che viene sfasciata sul palcoscenico. Naama Tsabar, in una performance del 2008, Babies ripete quel gesto mentre canta in una band femminile, ma il suo strumento, invece di distruggersi, finisce col fare a pezzi il pavimento del palco. Con modalità ben più pensose, nel 2018, dentro una sala del Faena Art Center di Buenos Aires (Melody of Certain Damage): per terra, insieme con lei, ci sono, sparsi qui e là i brandelli di una chitarra elettrica, corde, microfono, viti e un amplificatore.
Così allestito, lo spazio può già essere fruito come una scultura concettuale, ma ogni elemento della scena, oltre ad avere una funzione estetica, ha una funzionalità che l’artista farà vivere con la sua performance. I pezzi presenti sul pavimento sono collegati tra loro e permetteranno alla nostra protagonista di ridare vita all’oggetto, producendo sonorità inedite. Allo stesso modo ecco che in Double face, performance ripetuta più volte con diverse modalità, due chitarre, assemblate in un unico strumento, vincolano le due donne che le suonano a una forma di collaborazione: le due chitarre “siamesi” non solo le costringono ad alternare e mescolare i suoni, ma, obbligandole ad assumere gli stessi gesti e movimenti, inevitabilmente impacciati, impediscono qualsiasi forma di assolo virtuosistico e narcisistico.
In questa direzione si sviluppa buona parte della ricerca artistica di Naama Tsabar, che, nella sua demistificazione della scena musicale, coinvolge anche gli oggetti che la popolano. Come, per esempio, i microfoni, che, schierati con i loro supporti, diventano in Barricade del 2016 e Ruptures del 2019 protagonisti di vere e proprie barriere. Questa sorta di cespugli elettronici sono tra loro collegati e alimentati da radici di cavi allineati sul pavimento secondo geometrie non casuali che ne permettono il funzionamento.
Allo stesso modo dei microfoni, tutto ciò che il suono veicola e il suo spettacolo nasconde viene “fatto vedere” dalla Tsabar: altoparlanti, amplificatori, miscelatori, ogni elemento dell’attrezzatura da palcoscenico o dell’impianto stereo di un appartamento viene smontato, ricomposto, espanso, impacchettato, riprogrammato, disseminato e installato nello spazio di saloni di musei, i cui quadri, pannelli, pavimenti e pareti vengono trasformati in enormi strumenti musicali che il pubblico può fruire come sculture e contemporaneamente toccare, provare, “suonare” in una cacofonia sovversiva e rilassante. E in cui smarrirsi può essere piacevole.
In alto: da ‘Melodies of Certain Damage (Opus 4)’
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