CHIACCHIERE DA BOT
I chatbot, un tempo legnosi e decisamente poco “umani”, si sono evoluti e si stanno affermando come strumenti indispensabili nel customer care: ecco che cosa ha permesso il salto di qualità di questi assistenti virtuali
di Marco Agustoni
Quando pensiamo ai chatbot, gli interlocutori virtuali che simulano una conversazione scritta con un essere umano, sorge spontaneo il ricordo delle tante, impacciate interazioni avute con i primi sistemi di questo tipo: risposte poco pertinenti o sempre uguali, senso di frustrazione e la costante tentazione di abbandonare ogni tentativo di comunicazione, scrivendo improperi che tanto non saranno colti dal destinatario. Eppure, per quanto sul web capiti ancora di imbattersi in assistenti virtuali sui quali, se solo avessero un volto da schiaffeggiare, sfogheremmo volentieri i nostri impulsi più violenti, la categoria negli ultimi anni si è evoluta tantissimo.
Oggi i chatbot sono sempre più diffusi e stanno ampiamente dimostrando il loro potenziale. Il loro impiego primario riguarda soprattutto il customer care, per aiutare gli utenti nel reperimento di informazioni, nell’adempimento di pratiche, nella scelta di prodotti. Ma possono farlo in modi diversi e soprattutto con un grado crescente di complessità. I chatbot basici sono, in sostanza, delle FAQ interattive. Quelli più avanzati sono invece in grado di assistere l’utente in maniera più articola- ta. Andrea Fattori, co-fondatore di Gruppo Orange, web agency specializzata nella realizzazione di chatbot, e di Link&Lead, startup che mira a trasformare i dipendenti in brand ambassador tramite la gamification, spiega: «I chatbot funzionano tanto meglio, quanto più è circoscritto l’ambito in cui operano». Dedicarlo al solo reso dei prodotti, per esempio, aumenta le probabilità di fornire risposte esaustive rispetto a uno demandato a rispondere a quesiti generici. «Cercare di creare un chatbot che risponda a tutto è inutile, perché gli utenti sono così fantasiosi, che riuscirebbero comunque a domandare qualcosa in grado di metterlo in difficoltà».
Ma cosa ha permesso ai chatbot di fare il salto di qualità? Il principale miglioramento riguarda le capacità di comprensione del linguaggio naturale. «Per cogliere una domanda, i primi chatbot avevano bisogno di una corrispondenza esatta con frasi specifiche, di cui bisognava prevedere le variazioni. Oggi, se anche la domanda è posta in maniera differente, i chatbot più evoluti sono in grado di afferrarla». Perché questi sistemi risultino efficienti, è però necessario un attento lavoro di programmazione. Non tanto a livello di codice, dato che questa parte viene di solito demandata a piattaforme già esistenti. Piuttosto, va definita l’area semantica all’interno della quale dovrà operare il chatbot. Per farlo, bisogna partire dai reali bisogni degli utenti. «Serve avere le idee chiare rispetto alle domande più impor- tanti. In questo aiuta molto, se c’è, uno storico delle interazioni del servizio clienti», prosegue Andrea. «Ci sono casi in cui due o tre domande principali costituiscono più del 50% del traffico». Per esempio, per un eCommerce potrebbero riguardare le modalità di restituzione di un prodotto o i tempi di spedizione.
Se già un chatbot è in grado di rispondere a queste domande, alleggerisce di molto il lavoro di customer care. Comprendere quali sono, però, è solo il primo passo. Quello successivo consiste nell’insegnare all’interlocutore virtuale a riconoscerle e reagire in maniera corretta. Questo può avvenire tramite singole keyword, se la parola chiave in questione è interpretabile in maniera pressoché univoca (per esempio, se una domanda contiene il termine “rimborso”), oppure attraverso il riconoscimento di frasi più o meno complesse. Tuttavia, l’efficienza da sola non basta: ecco quindi che al chatbot vanno insegnate le “buone maniere” e le regole di una conversazione il più possibile naturale. «È fondamentale creare un’esperienza d’uso piacevole, premurandosi che l’interazione non risulti fredda o addirittura sgarbata. Ed è importante creare risposte diverse nella forma, per quanto uguali nella so- stanza, per non dare l’impressione di automazione meccanica. Ancora, risulta utile ramificare la conversazione». Questo significa che, invece di cercare di soddisfare con una risposta secca un’unica domanda, è preferibile approfondire la questione, facendo in modo che sia il chatbot stesso a guidare la conversazione con domande successive, via via più specifiche. In questo modo l’interazione è più fluida, coinvolgente e soprattutto efficiente.
I chatbot, insomma, sono al lavoro per diventare sempre più umani. Ma non “trop- po umani”. «L’errore più grande consiste nel cercare di spacciare il chatbot per una persona: in questo caso sono inevitabili brutte figure. Meglio essere subito chiari in merito». E, per quanto questi sistemi siano in continua evoluzione, per il momento rimangono solo una componente di un ingranaggio più grande. «Le soluzioni migliori integrano chatbot e live chat. I chatbot sono la prima linea nel fornire risposte a problemi generici. Se però la richiesta dell’utente è specifica, gli interlocutori virtuali devono poter passare la comunicazione a un umano».
Nella foto in alto: Philip Glickman da Unsplash
Articolo pubblicato su WU 108 (giugno luglio 2021)
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