VENEZIA 78° – MICHELANGELO FRAMMARTINO, IL BUCO
‘Il Buco’ è il nuovo film di Michelangelo Frammartino, in concorso al 78esimo Festival del Cinema di Venezia e ricostruisce un’impresa speleologica avvenuta in Calabria negli anni Sessanta
di Davide Colli
In concorso durante la 78esima edizione del Festival di Venezia, Il Buco rappresenta il ritorno dietro la macchina da presa dopo 11 anni (il suo Le Quattro Volte era del 2010) di Michelangelo Frammartino. Con il regista abbiamo parlato della sua ultima opera, ovvero una ricostruzione di una celebre impresa speleologica compiuta nel 1961: 700 metri nell’abisso di Bifurto, in Calabria.
Come è possibile nel contesto italiano attuale riuscire a realizzare un’impresa di vicinanza herzogiana come questa?
A livello finanziario non sono la persona più adatta per spiegarlo, ma dal punto di vista produttivo non si è rivelato nessun problema. Sono andato a trovare Paola Maranga in Rai e le ho detto: «Vorremmo fare un film in cui come al solito non ci saranno i dialoghi, senza attori e senza musiche, ma in questo caso togliamo anche la luce». Gli unici problemi sono stati a livello di sviluppo, dato che per immergerci abbiamo usato attrezzature dell’epoca data la mancanza di fondi.
Il film è una rievocazione di un evento degli anni Sessanta, ma è qui proposta con un linguaggio documentaristico. Come sei riuscito ad amalgamare in maniera soddisfacente l’elemento di finzione con quello reale?
A me fa molta paura quando vengo definito, insieme ad altri registi, come rappresentante del “cinema del reale”. Questo cinema ha a che fare con l’ingovevernabile e la macchina da presa che si pone davanti a questa ingovernabilità, mentre nella ricostruzione questo aspetto va a perdersi. In questo caso la ricostruzione è stata necessaria data la situazione di pericolosità a cui si sono posti gli speleologi che hanno partecipato. Quindi lo definirei sì un film con un elemento di ricostruzione, ma in cui la componente ingovernabile rimane ancora forte.
Come hai lavorato nel difficile processo di illuminazione con il direttore della fotografia Renato Berta?
È affascinante il fatto che in grotta tu non veda i personaggi, ma solo il loro sguardo, ed è proprio questo sguardo a costruire lo spazio per lo spettatore. Questa dimensione ovviamente è totalmente fuori dal controllo mio e del direttore della fotografia. Anche qui ritorna il non controllabile, che devo dire mi rassicura in quanto rende il lavoro più interessante. Renato però ha costruito le luci dei caschi, quindi si accetta di non controllare fino a un certo punto. Però il piacere di lasciar prendere il sopravvento dalla vita e non farsi annoiare da essa è inimitabile.
Il lavoro del comparto sonoro è altrettanto impressionante. Come si è svolto?
La dimensione sonora della grotta è decisamente suggestiva. Noi abbiamo lavorato con il Dolby Atmos, una scelta in qualche modo disgraziata. Lo abbiamo scelto sia per avere una resa sonora implementata che per poter lavorare sui neri assoluti, protagonisti nelle sequenze nella grotta. La proiezione in Sala Grande, per questione di imparzialità per tutti i film del Concorso, sarà invece in 5.1. I due fonici hanno compiuto un lavoro impressionante, tanto da essersi dovuti trasformare in speleologi per l’occasione.
Con Il Buco ti aspettavi di arrivare a concorrere per il concorso principale del Festival di Venezia?
Assolutamente no, non era per nulla programmato e ne siamo enormemente soddisfatti. Ci aspettavamo di partecipare a qualche competizione di minore notorietà, ma questa notizia ha stupito persino noi. Ora la giuria sicuramente si troverà in difficoltà nel giudicare un film più contemplativo, più appartenente al genere dello slow cinema, rispetto ai restanti candidati.
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