SEACREATIVE – LA STRADA E LA SCUOLA
I suoi personaggi si palesano sui muri d’Italia – e non solo – nella loro interezza o da dietro gli “strappi” che attraversano le sue opere, riconoscibili come poche. Oggi continua il suo percorso di ricerca e di memoria, cercando di passare qualcosa anche ai più giovani
di Enrico S. Benincasa
Sea era la sua tag, ma la necessità di avere un sito Internet lo ha “costretto” a diventare SeaCreative: «L’ho avevo scelto come dominio» ci ha detto, «purtroppo “Sea” e basta era già occupato dalla società che gestisce tutti gli aeroporti milanesi. A un certo punto hanno iniziato a chiamarmi per esteso, ho “lottato” per un po’ per far passare il concetto che il mio nome era solo di tre lettere, ma poi mi sono detto che andava bene anche così». Le energie che Fabrizio Sarti ha risparmiato in questioni onomastiche le ha utilizzate per portare avanti la sua arte e la sua ricerca personale, prima con gli spray e poi anche con i pennelli. Oggi divide la sua attività tra muri, illustrazioni, workshop con i giovani e trova il tempo anche per fare autoproduzione di fanzine. Un modo di utilizzare il suo archivio non solo per popolare un profilo di un social, ma per non dimenticare la versione più pura della street art.
Come hai passato l’estate? Hai lavorato molto?
A partire dal giugno la situazione si è sbloccata, oserei direi che c’è stato quasi un boom. Ho realizzato un po’ di lavori, sia commerciali, sia per festival come quello del Museo al Cielo Aperto di Camo, in provincia di Cuneo. Poi mi sono dedicato a una parte della mia professione a cui tengo molto, quella dei workshop nelle scuole.
Questi workshop ti mettono in contatto con i giovani, se non giovanissimi. C’è più interesse oggi all’arte e al disegno rispetto a prima?
Più che per il gesto tecnico, c’è un interesse per l’aspetto partecipativo dell’arte e per le sue doti socializzanti e lo ritengo un fatto positivo. Uno dei motivi che mi ha spinto a dedicarmi alla street art e ai graffiti era fare qualcosa di divertente con i miei amici. Chi si avvicina oggi, forse, lo vede più come un lavoro. Non è per forza un male, ma non bisogna perdere di vista che, alle origini di questi movimenti, la partecipazione era un pilastro fondamentale.
Oggi c’è maggiore accettazione dei graffiti e della street art rispetto a quando hai iniziato?
Sì, un po’ più di accettazione c’è, lo testimoniano anche le opportunità che si creano legate all’ambito pubblicitario. Il limite di oggi, forse, è che ci abbiamo messo una vita a sdoganare un linguaggio diverso, non solo figurativo, mentre oggi stiamo seguendo principalmente questa via. Ci sono artisti tecnicamente bravissimi, ma manca forse un po’ più di ricerca che forse c’era qualche anno fa.
È il mercato dei privati che porta verso questa strada?
Sì, artisti che hanno delle ottime capacità riproduttive con spray o pennelli hanno molte opportunità lavorative. Lo spazio di ricerca rimane nei festival e in quella che è la tua sfera personale, ma qualche volta ci sono aziende che ti danno carta bianca e si fidano delle tue capacità. A me è capitato ultimamente in un progetto curato da Enrico Sironi, ParkLife, in cui abbiamo lavorato su dei silos. Dei lavori scelti, tre – tra cui il mio – erano figurativi, mentre sui restanti la committenza ha lasciato gli artisti liberi di esprimersi con il lettering.
È una tendenza generalizzata o riguarda solo il nostro Paese?
Penso che sia così un po’ in tutto il mondo, forse con la presenza di più festival all’estero la situazione è maggiormente bilanciata. I soggetti figurativi, in generale, sono più semplici da accettare e da veicolare all’esterno, soprattutto quando c’è una comunità coinvolta. C’è però ancora, fortunatamente, spazio per esprimersi.
Nei tuoi lavori, spesso, vediamo degli strappi da cui poi emergono personaggi e mondi nascosti. Come è nato questo tuo tratto distintivo?
È una cosa nata quasi per caso. Ho sempre portato avanti la ricerca sui personaggi, mantenendo un tratto personale per rendere i miei lavori riconoscibili. Gli strappi mi hanno permesso di lavorare su superfici non regolari, per esempio su un muro dove ci sono finestre. Mi è sempre piaciuto mischiare i livelli, i pattern e i colori, facendo così emergere questi mondi sotterranei. Li vedo come entità diverse che si collaborano alla creazione dell’opera finale. È un po’ un dualismo tra la mia parte più essenziale e grafica, con un tratto più pulito, e quella più elaborata.
Il tuo mondo rimane comunque a colori.
Sì, mi piace abbinarli, qualche volta in maniera estrema, ma è a seconda della situazione che decido come comportarmi. Uso solo il bianco e nero quando voglio dare più importanza al soggetto, evitando che chi guarda l’opera si perda eccessivamente nei dettagli. Nella pre-produzione mi aiuto con tutto, dalle foto che mi mandano a Google Maps, alle volte però c’è bisogno di modificare qualcosa sul posto.
Come ti sei avvicinato a questo mondo?
Sono originario della provincia di Varese e i primi contatti con il mondo dei graffiti sono stati i giornali di skate e i murales del porto di Rimini, dove andavo da bam- bino in vacanza. L’interesse crescente per questo mondo mi ha portato tante volte a Milano per comprare le prime fanzine – Internet non c’era – e poi, appena dopo le medie, ho iniziato con gli spray. Dal 2000 circa in avanti, ho cominciato a usare anche i pennelli.
Cosa provi quando non trovi più un pezzo?
È sempre una sensazione strana, perché con il muro che hai dipinto stabilisci una sorta di rapporto “fisico”. Un’opera costa fatica, fa sudare insomma, quindi la sua “scomparsa” ti lascia sempre un effetto straniante. Faccio parte però di una generazione diversa: quando ho iniziato faceva parte del gioco il fatto che un muro poteva durare lo spazio di una notte.
Oggi l’opera vive in digitale, al di là della sua presenza nel mondo reale.
Sì, ma il digitale serve anche per ridare all’opera un’altra vita fisica. Le immagini di questo tipo possono far nascere archivi e, nel mio piccolo, utilizzo il materiale che ho per creare io stesso delle fanzine autoprodotte. Lo faccio con i miei lavori e anche con quelli di altri artisti. Ne ho fatta una durante il lockdown che ho chiamato “Banda dei Limoni” e racconta dieci anni di lavori nelle fabbriche abbandonate di Emilia Romagna e Lombardia. Sono opere che ho realizzato io, ma non solo. Sono muri diversi da quelli che potresti fare in un festival o in un contesto su commissione. È, se vogliamo, una versione più pura della street art.
Come la pensi sul restauro e la conservazione dei lavori?
Non lo so. Può aver senso per le generazioni future, ma alla fine le opere sono in strada e la strada si “evolve”. L’unico muro che ho fatto e che mi sentirei di andare a ripristinare è quello che raffigura un marinaio a Messina. A distanza di tanti anni ogni settimana mi accorgo che vengo taggato nelle foto dai cittadini e non solo da loro, è rimasto nel cuore delle persone. È uno dei lavori più riusciti che ho fatto, che chi vive in quel posto sente proprio. Ed è la soddisfazione maggiore per chi fa la mia professione.
Che progetti hai nel prossimo futuro?
Continuerò a fare i workshop nelle scuole, è un’attività che mi sta dando tanto. Ho diversi muri in programma tra cui uno nel mio paese, Maccagno in provincia di Varese, poi a Torino parteciperò a una collettiva presso la A Pick Gallery.
Intervista pubblicata su WU 109 (settembre 2021)
Nella foto in alto: SeaCreative
SeaCreative su IG
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