‘TITANE’ E L’IBRIDAZIONE
Titane, opera seconda di Julia Ducornau, ha trionfato durante l’ultima edizione del Festival di Cannes, vincendo la Palma d’Oro da una giuria presieduta da Spike Lee
di Davide Colli
Il concetto di ibrido orbita attorno a Titane con molteplici accezioni. Prima di tutto a livello contenutistico e narrativo: la trama vede una donna, Alexia, interpretata da Agatha Rouselle, rimanere incinta di un’automobile, ovviamente in seguito a un rapporto sessuale più spudorato che in Crash di David Cronenberg. Alexia, già prima di questo atto, si presenta come un anello mancante tra l’essere umano e la macchina: già da piccina anticipava questa predisposizione alla “famiglia” dei meccani, emulando il rumore di un motore poco prima di un incidente stradale compiuto dal padre e che causerà questo preannunciato incrocio sul piano fisico e viscerale con tale mondo.
Lo stesso Titane è un ibrido: il film – Palma D’Oro all’ultimo festival di Cannes – insegue un determinato sottogenere (il body horror), accingendo da fonti più o meno dichiarate (il già citato Cronenberg in primis, ma anche il cinema di Bertrand Bonello, che non a caso è chiamato a rivestire il ruolo di suo genitore), integrandolo a uno spiccata e netta vicinanza al modo di mostrare immagini in movimento sul grande schermo tipico del contemporaneo. Nella rappresentazione della corporalità estrema e totalizzante, la regista Julia Ducournau sfiora pericolosamente il grottesco e la parodia, giocando con questi filoni con un gusto per il rischio che rende difficile giudicare la riuscita più o meno eclatante dell’operazione, specialmente non conoscendo le sue reali intenzioni dell’autrice: è un esempio di applicazione delle più moderne gender theories nel cinema di genere o un’elaborata boutade che con premeditata goffaggine prende in giro gli stilemi delle suddette?
Una conversazione pressoché infinita, che, in seguito alla premiazione a Cannes, ha fatto propendere molti verso la prima ipotesi, con la volontà di incensarlo o demonizzarlo, rendendo Titane un’opera decisamente polarizzante. La verità risiede nel mezzo, in quelle sagome di carne che si dimenano davanti allo spettatore, che siano essi assorbiti in una danza mortuaria o in una sempre violenta coreografia di ricongiungimento padre-figlio; due esibizioni, due tentativi di apparire, di testimoniare la propria unica e irreplicabile presenza in questo mondo, obiettivo che combacia perfettamente con quello del film.
La foto in alto è di Carole Bethuel
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