GIADA BOSSI – PICCOLE STORIE DA ESORCIZZARE
Dai ricordi registrati con il cellulare e la GoPro agli studi in sceneggiatura, dai primi video degli eventi milanesi alla scrittura per il cinema che insegna a rimettere ordine nelle storie, soprattutto nella propria, alla ricerca delle sfumature che nessuno ci ha insegnato
di Alessandra Lanza
Classe 1993, cresciuta a Cunardo, un paesino in provincia di Varese «microscopico, molto ricco e immerso nella natura», Giada Bossi è una regista, videomaker e sceneggiatrice con base a Milano. Ha realizzato negli ultimi anni pubblicità, da Leone a Maserati; videoclip come Bellissimo di Ghemon, Il tempo non ci basterà di Mecna e Giovanna Hardocore di MyssKeta; short movie che arrivano dal suo passato o che ne fanno solo cenno, toccando le corde più profonde. Ora è alle prese con la scrittura di due film: minimo comune denominatore le contraddizioni che si nascondono nelle pieghe delle realtà che spesso gli adulti non vogliono vedere e con cui le giovani generazioni si scoprono a confrontarsi.
Com’è iniziata la tua passione per il cinema?
Ai tempi del liceo artistico ho scaricato una quantità enorme di film. Partivo da un attore che mi piaceva, guardavo tutto il repertorio, poi attraverso i correlati di Wikipedia passavo al successivo e così via. Ho visto un sacco di cose molto belle e un sacco di cose molto brutte, ma è stato l’inizio di tutto. Nel disegno o nella fotografia non avevo mai trovato il mio modo di esprimermi, nel video è come se avessi trovato una pace. Dopo il liceo sono stata indecisa se iscrivermi a geofisica o fare qualcosa di legato al cinema, così ho preso tempo: ho comprato una macchina da mille euro su eBay e, dopo la maturità, sono andata in Umbria da amici. Quell’estate abbiamo portato una pizzeria itinerante in giro per l’Europa, ed è lì, trovandomi in situazioni così particolari nel loro essere belle e disperate, che è scattato davvero il pallino. Nel 2013 sono venuta a Milano per frequentare il SAE Institute e poi mi sono iscritta a un corso serale di sceneggiatura alla Civica Scuola di Cinema. Ho iniziato realizzando reportage di eventi come videomaker e facendo l’assistente alla regia, e lavoro dopo lavoro sono arrivata qui.
Nei tuoi lavori i protagonisti sono sempre i giovani e i giovanissimi. Cosa vuoi indagare?
Diciamo che non mi interessa parlare degli anziani. Ho tre fratelli minori, di cui due oggi adolescenti, e stando con loro rivivo dinamiche del mio passato. Io stessa, comunque, non mi sento ancora adulta. Ecco perché i miei progetti personali sono tanto legati al mondo della provincia e dell’adolescenza. In pubblicità mi viene richiesto un mood colorato e gioioso che non è la mia cifra, ma mi permette di sopravvivere. I miei lavori personali sono un po’ più tristi, come me. Mi interessano gli aspetti più ambigui, i contrasti e le cose che non funzionano. Arrivo da un paesino borghese dove si evita a tutti i costi il malessere, come se non si fosse giustificati a stare male. Non corrisponde alla realtà e da bambini è traumatico, perché va nascosta molta sofferenza, bisogna stare bene. Accettare le zone d’ombra lì è difficile, come se non ci fosse un linguaggio adatto, come non si fosse alfabetizzati per parlare di queste questioni che così non fanno che fermentare.
Come hai fatto pace con questa realtà?
A 19 anni, come tanti, ho fatto il “fugone”. Ho imparato a riapprezzarla grazie a quello che sto scrivendo e girando, come un videoclip per un gruppo di ragazzi locali che fanno rap. Ho accettato il mio background e adesso sto pensando di farne qualcosa. Sto vivendo tutto in maniera più attiva, anche grazie ai miei fratelli. Qual- che anno fa uno è finito in coma per 15 giorni. La riabilitazione è stata lenta, e per aiutarlo a rimettere ordine nei ricordi ho recuperato tutto il materiale che avevo girato con cellulari e GoPro prima dell’incidente per rimontarlo con lui. Così, da ore e ore di girato, è nato il mio video Borntwice.
Hai riscoperto uno sterminato archivio in pandemia?
In passato non ero mai stata davvero sola per oltre una settimana, mentre durante la pandemia ho passato due mesi e mezzo in un monolocale senza vedere praticamente nessuno. Per me è stato più un fare i conti con il presente. Nel mondo degli adv c’è stato invece un momento di panico: vedevo uscire tanti prodotti girati male, fatti in casa davanti a un pc e fondati sull’archivio che finivano persino in tv e ho sperato che la gente non si abituasse a questi standard – per fortuna non è andata così. La cosa che amo di più del mio lavoro è incontrare persone capaci e intelligenti da cui imparare, scoprire posti e situazioni nuove: a creare le cose belle è il confronto.
Da dove raccogli le ispirazioni?
Quelle del liceo le ho dovute recuperare quasi tutte, alcune mi sono rimaste, come Donnie Darko. La cosa che più mi ha aiutato sono quei libri che mi hanno fatto ca- pire che anche alcune delle cose più banali possono essere interessanti, come accade nel mondo di Foster Wallace, Carver, Carrère… Sono storie piccole che hanno comunque qualcosa da dire, non serve l’elemento epico o sensazionale. Citando Joyce Carol Oates, «Your darkness has an audience». Devo ringraziare anche Tobia Rossi, conosciuto alla Civica, e il suo background letterario e legato alla drammaturgia: la- vorare con lui sulla scrittura di film negli ultimi due anni mi ha dato la possibilità di vedere cose che per me erano traumi come possibili storie per qualcun altro, capire che c’era spazio per raccontare quello a cui tengo.
Lo fai per te stessa, come analisi, o perché pensi che a qualcuno possa essere utile, al di là del bisogno di esprimerti?
È una necessità: quando scrivo qualcosa non penso a come impatterà sugli altri, ma a dargli la forma di una storia, dove tutto è organizzato secondo lo schema causa-effetto. Se poi è di aiuto anche per altri, come per me lo sono state altre cose, è un di più. Nella scrittura per il cinema si tira una linea, non per forza universale, ma sicuramente la propria. I tre usi del coltello: saggi e lezioni sul cinema di Mamet mi ha aperto gli occhi: è importante distinguere storie e vita reale, che non è come il cinema, è piena di parti inutili e noiose. Non tutto può diventare un film. Mi sono trovata in situazioni che avrebbero da sole fatto la storia che stavo seguendo, ma in quel momento non volevo riprenderle per non mettere in difficoltà il protagonista o sciupare qualcosa. Ecco perché al documentario nudo e crudo preferisco la fiction.
Molte di quelle che hai raccontato sono storie di ragazze. Tobia e i tuoi fratelli ti hanno aperto a un punto di vista più maschile?
Non farei distinzioni di genere. Io e te possiamo raccontare una stessa storia in modo diverso. Ora c’è la moda di dar spazio alla regista donna che parla delle don- ne. Sì, sono donna, ma il mio punto di vista è comunque diverso dal tuo, lo sarebbe se fossi nata maschio, se fossi nata un giorno dopo o con gli occhi marroni. E poi femminilità non coincide con empatia, è una questione di profondità, di intensità. In Tobia ho trovato una persona altrettanto e forse più sensibile di me. Mi ritengo fortunata che le cose stiano cambiando, ma quando mi cercano per progetti in cui non c’entro nulla perché vogliono una regista femmina rifiuto. Voglio fare le cose che mi riguardano, quello che dovrebbe parlare per me è il mio lavoro.
Il soggetto di un film che avete scritto insieme è stato comprato, e siete alle prese con un altro. Di cosa trattano?
Il tema generale è quello di cui abbiamo parlato all’inizio: il non voler vedere il male a tutti i costi in una realtà di provincia, il non voler accettare che ci sia del buio. Ora sarà compito della produzione metterlo in piedi, spero entro l’estate prossima, ma essere pagata per qualcosa che ho scritto è già un successo. L’altro soggetto, dedicato all’adolescenza dei primi anni Duemila, è agli albori. Devo ancora abituarmi ai tempi del cinema, ma sto imparando che è bene lasciar sedimentare.
Intervista pubblicata su WU 110 (ottobre 2021). Segui Alessandra su IG
Nella foto in alto: Giada Bossi, foto di Alessandra Lanza
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