TESTIMONE DAVANTI ALL’OBIETTIVO
Boushra Almutawakel, da quasi 30 anni, racconta con la fotografia la condizione femminile nel mondo islamico, spesso mettendosi lei stessa davanti all’obiettivo della camera. Il suo è un approccio senza preconcetti, che parte dall’occhio di una fotografa “per caso”, donna e yemenita
di Stefano Ampollini
Quest’estate le crude immagini provenienti dall’Afghanistan ci hanno riportato alla drammatica realtà di una parte del mondo che credevamo di aver conquistato con il nostro stile di vita e i nostri valori di libertà e uguaglianza, anche e soprattutto di genere. Non abbiamo pensato che nel mondo occidentale i diritti, per primi quelli delle donne, sono frutto di secoli di lotte e non sono mai scontati. Il ritorno dei talebani a Kabul ha riportato indietro l’orologio della storia e la condizione femminile a un livello di sottomissione che fatichiamo persino a immaginare. È una condizione ancora più lacerante, oggi, per una generazione di giovani afghane, che invece è cresciuta con i nostri stessi valori.
Nata a Sana’a nel 1969, Boushra Almutawakel è considerata la prima donna fotografo del suo Paese, lo Yemen, una nazione sconvolta da una lunga guerra civile che affonda le sue origini nella primavera araba del 2011. Mentre frequentava i corsi di economia all’American University di Washington negli anni Novanta, Boushra si iscrisse a un corso di fotografia in bianco e nero. In quel momento nacque in lei una passione, quasi un’ossessione, per una forma di espressione che più di ogni altra è in grado di testimoniare la condizione odierna della donna in gran parte del mondo arabo e musulmano.
«Quando ho iniziato nel 1994 in Yemen c’era solo una manciata di fotografi maschi, la maggior parte dei quali erano ritrattisti in studio, fotoreporter o paesaggisti», racconta Boushra. «Ero l’unica donna: mi riunivo spesso con artisti maschi, per lo più pittori o incisori, ed esponevo anche con loro. Erano negli anni Novanta, ma ora la situazione è molto diversa. Oggi ci sono molte artiste, fotografe e cineaste yemenite fenomenali: Eman Alawami, Amira e Hayat Sharif, Asiya Alsharabi, Thana Farouq, Somaya, solo per citarne alcune».
Boushra Almutawakel ha collaborato con numerose organizzazioni internazionali e ha esposto nelle principali gallerie d’arte in ogni continente. Nel 2018 è stata nominata dalla BBC come una delle 100 donne più influenti al mondo. Attualmente lavora e vive a Dubai con il marito e le loro quattro figlie, dove è anche membro del prestigioso Tashkeel. I suoi scatti di donne con il velo hanno fatto il giro del mondo e sono diventate virali, a testimonianza del fatto che un’immagine spesso può aprire raccontare e aprire le coscienze più di mille proclami. «In realtà l’hijab (il velo a copertura dei capelli, NdR) è in circolazione da secoli nelle società asiatiche e occidentali e si riflette nella loro arte», continua Boushra. «Guarda tutti i dipinti della Madonna: molte persone pensano che il velo delle donne sia una pratica islamica o araba, ma è un’usanza che esiste da secoli».
Come donna, come fotografa e come yemenita, Boushra è consapevole che la tradizione di indossare l’hijab è un argomento complesso: «Essendo cresciuta e vissuta in Yemen, e avendo avuto un’esperienza diretta con l’hijab, ho sentimenti contrastanti. Ci sono alcuni aspetti dell’hijab che mi piacciono e altri no. Penso che il velo sia un argomento intrigante e complesso, che coinvolge religione, politica, sociologia, moda, femminismo, storia e altro ancora. Qualcosa che ci può disgustare o affascinare. Per alcune donne che lo indossano è una forma di dovere, devozione, per altre può anche essere una forma di resistenza e identità. Io indosso l’hijab in Yemen, ma non al di fuori del Paese. Indosso il niqab quando vado a un matrimonio con un trucco pesante. Il niqab può sembrare potente da indossare perché puoi vedere tutti, ma nessuno può vederti o sapere chi sei, il che può anche essere liberatorio».
Boushra non ha dubbi su quali siano le ragioni che hanno portato il velo al centro della discussione politica e religiosa: «Nel mondo islamico c’è chi spinge e impone l’uso del velo. In Occidente abbiamo chi preme affinché le donne si tolgano l’hijab. I politici e i leader religiosi, la maggior parte dei quali sono uomini, dovrebbero lasciare libere le donne e concentrarsi su questioni più importanti come povertà, salute, istruzione, occupazione, economia, parità di genere, violenza, buon governo, distribuzione di ricchezza, trasparenza, onestà. L’hijab è stato politicizzato e armato come strumento di divisione, una forma di distrazione dalle questioni importanti per il controllo delle donne e dei loro corpi».
Nel 2010 Boushra Almutawakel ha creato Mother, Daughter, Doll (madre, figlia e bambola), un’opera diventata la perfetta rappresentazione di una nazione come lo Yemen che stava sprofondando nel buio del conservatorismo e dell’estremismo islamico. «La trasformazione dell’abbigliamento pubblico delle donne negli anni è diventato uno dei segnali per osservare come stava cambiando la società nel mio Paese: le donne erano sempre più ricoperte da strati di stoffa nera e guanti neri per non attirare l’attenzione degli uomini. Questo però non impediva agli uomini di continuare a fissarle, commentarle e molestarle, a dimostrazione che il problema non sono le donne, ma gli uomini, che non riescono a contenere i loro appetiti sessuali, anche se l’Islam implica il controllo personale».
In MDD ha fotografato se stessa e la figlia Shaden, che all’epoca aveva sei anni. Inizialmente non aveva intenzione di usare se stessa nel proprio lavoro, ma è stato necessario: nessuna donna yemenita avrebbe accettato di essere fotografata con la possibilità che l’immagine potesse essere condivisa sui social o mostrata in una galleria:
«Ho capito la loro preoccupazione e ho pensato che se volevo chiedere alle donne di apparire nelle mie foto, con tutti i rischi che questo avrebbe comportato, avrei dovuto mettermi per prima davanti alla macchina fotografica. Quando è arrivato il momento di esporre le foto in Yemen, ero sinceramente spaventata per come avrebbe reagito la mia famiglia e per come l’avrebbero vista gli altri. Da allora, uso me stessa e le mie quattro figlie nel mio lavoro. Per qualche ragione, le immagini che ho con le mie figlie sono le mie preferite e quelle che funzionano di più».
Articolo pubblicato su WU 110 (ottobre – novembre 2021).
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