FRATELLI D’INNOCENZO -DETTAGLI, SEMPRE
Dopo il grande successo di ‘Favolacce’ la coppia di fratelli registi torna con il nuovo ‘America Latina’, un film meno corale del precedente e che ha sempre Elio Germano come protagonista e i Verdena come autori della colonna sonora
di Davide Colli
Durante la 78esima edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Fabio e Damiano D’Innocenzo, al Lido per presentare il loro terzo film, America Latina, che sarà nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 25 novembre. Protagonista delle pellicola è ancora Elio Germano: l’attore romano, che ha già lavorato con i D’Innocenzo in Favolacce, interpreta questa volta Massimo Sisti, un dentista che vive un’esistenza agiata e tranquilla insieme alla sua famiglia, almeno fino a un evento che gli cambia la vita. «È un personaggio che costituisce l’opposto del modello “maschio alfa”, attento alla delicatezza e alla sensibilità», ci ha detto Elio Germano, anche lui presente alla nostra chiacchierata con i due fratelli registi.
Perché questo film si intitola America Latina?
I nostri genitori vivono a Latina, in una casetta che, con il tempo e con fatica, siamo riusciti a costruire. Il fatto che sotto Latina vi si trovi sempre l’acqua è un concet- to che ci intrigava molto, così come il suo essere “scarnificata”. L’America, invece, corrisponde al sogno, che da sempre contraddistingue questo Paese, che noi italiani fin da piccoli mitizziamo moltissimo. Il dualismo tra il realismo di Latina e il sogno dell’America ci affascinava e ci ha spinti verso questo titolo.
Quali sono stati, invece, i vostri riferimenti pittorici per questo film
Per Favolacce avevamo disegnato tutte le inquadrature; per America Latina, invece, le abbiamo anche colorate per poter essere il più possibili precisi. Ci siamo molto ispirati a un grande fumettista americano, Don Rosa, la cui più grande abilità risiedeva nella minuzia dei dettagli. A noi il dettaglio interessa molto, perché, in maniera subliminale, riesce a raccontare tantissimo ed è una particolarità del linguaggio del corpo che non riusciamo quasi mai a nascondere. Essa rivela sempre una verità cela- ta. Un altro riferimento è stato il pittore canadese Alex Colville, non molto famoso, che riesce a raccontare in maniera molto dignitosa la noia.
La colonna sonora di America Latina è dei Verdena: com’è stato lavorare con loro?
Abbiamo contattato i Verdena prima delle riprese e abbiamo mandato loro il copione. Era la loro prima esperienza nel cinema e non credo faranno altre colonne sonore. Sono degli orsi che vivono in una loro personale dimensione creativa, come noi d’altronde, e chiedergli di sposare un’atmosfera come quella che sentivamo è stato un processo complesso, ma molto bello. Gli abbiamo chiesto di lavorare per sottrazione, di non essere declamatori nella musica. La musica doveva accompagnare il film con grande gentilezza, tenendolo per mano, ma senza mai condurlo con forza o strattonare le scene. In America Latina, inoltre, c’è un lavoro profondo sul sound design: riteniamo sia un film che, solo ascoltandolo, richiami qualcosa di ancestrale, che ci riporta anche a una dimensione infantile, lavorando in particolare sulla paura suscitata dal suono e dall’orrore dell’ignoto. È un film che punta molto sulla componente musicale tout court.
E collaborare nuovamente con Elio Germano?
Noi scegliamo di lavorare con Elio perché lo sentiamo estremamente vicino come essere umano. L’ultima cosa di cui parliamo con Elio è la recitazione, noi con lui parliamo principalmente di vita quotidiana poiché è da lì che attinge. Non ha quindi paura di mettersi a nudo davanti alla camera, di far trasparire il lato iperbolico della sua persona, quanto delle nostre. In particolare, vogliamo raccontare con Elio i suoi e i nostri errori, perché nasconderli non servirebbe a nulla.
Com’è stato il passaggio dalla coralità di Favolacce alla grande favolaccia di America Latina?
Da parte nostra c’era una volontà di cambiamento. Favolacce era un film più bozzettistico e stilizzato. Lì il nostro punto di riferimento principale era Charlie Brown, ricercando la sintesi quasi elementare, a discapito della profondità, di cui alcuni personaggi ne soffrivano la mancanza. In America Latina volevamo immergerci dentro un unico personaggio, essere il suo sguardo perché il film è tutto assieme a lui e vedere come si esce da una crisi profonda di smarrimento dell’identità in un momento storico in cui l’identità è la cosa alla quale ognuno di noi tiene di più. Ci ritroviamo ad autodefinirci continuamente, con i social media e lo status quo. Ci sembrava interessante anche l’idea che ognuno di noi, chi più chi meno, possa, tramite un’indagine introspettiva, trovare dentro di sé qualcosa di terribile. Noi in primis.
Nei vostri ultimi lavori la televisione appare come uno strumento di escapismo e alienazione. Qual è il vostro pensiero su questo medium
Non crediamo di demonizzare la televisione, che può essere anche un mezzo di grande piacere: ti guardi i cartoni animati e stai alla grandissima. Il problema risiede nella grande speculazione con la quale a volte viene adoperata, ovvero come uno strumento di terrorismo psicologico. Più che alienarti, sei quasi portato ad avere paura e rimani davanti alla tv perché è una fonte di sicurezza e comfort. È come se la televisione talvolta ci costringesse ad arretrare i nostri stimoli verso la libertà. Assolutamente però non vogliamo attaccarla, dato che nemmeno ce l’abbiamo.
Nella foto in alto: i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo
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