GEOGRAFIE CONTESE
Dalle“due Cine” all’Isola delle Rose, passando per conflitti tra il folkloristico e il drammatico, i tentativi di ridefinire i confini mostrano come le nazioni non esistano “di per sé”, ma siano frutto dello scontro fra definizioni in conflitto fra loro
di Marco Agustoni
Lo scorso novembre, la Lituania ha annunciato l’apertura di un ufficio di rappresentanza taiwanese nel proprio territorio, provocando l’ira della Cina. Che l’ingombrante “vicino di casa” di Taiwan non avrebbe preso bene la notizia, del resto, c’era da aspettarselo: le due nazioni sono in profondo disaccordo da sempre. O meglio, sarebbe più corretto dire che sono d’accordo, perché entrambe concordano nel riconoscere l’esistenza di una sola Cina, comprendente tanto il territorio continentale, quanto l’isola di Formosa. Il problema sta piuttosto in quale sia la Cina in questione. Senza stare a tracciare un resoconto della recente storia cinese, in un primo momento la Repubblica di Cina (ovvero l’attuale Taiwan) godeva di un certo prestigio a livello globale. Progressivamente, però, il riconoscimento internazionale è venuto meno e nel 1971 Taiwan si è visto sfilare da sotto le terga la propria sedia alle Nazioni Unite a favore della Repubblica Popolare Cinese.
Oggi, Taiwan è un po’ come il gatto di Schröedinger: esiste e non esiste allo stesso tempo. E la situazione continuerà a essere tale fino a che qualcuno non aprirà la famosa scatola per osservare il gatto, ovvero fino a che non sarà seriamente affrontata la faccenda dell’indipendenza dalla Cina (paradossalmente, la questione sarebbe sollevata in maniera implicita qualora Taiwan rinunciasse alle proprie pretese sull’intero territorio cinese, perché così si dovrebbe parlare di due Cine distinte). Una situazione delicata, che pur basandosi su qualcosa di impalpabile come l’intesa comune su quale sia la “vera” Cina, potrebbe avere conseguenze concrete sullo scacchiere mondiale.
Del resto, non è certo la prima volta in cui l’esistenza (o meno) di uno Stato sovrano è determinata dall’accordo fra terzi o dalla negoziazione fra definizioni geopolitiche differenti. Un celebre esempio nostrano, raccontato di recente in un film diretto da Sydney Sibilia, è quello della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, fondata nel 1° maggio del 1968 dall’ingegner Giorgio Rosa in una piattaforma costruita al largo di Rimini, al di fuori delle acque territoriali italiane. Quasi più un esperimento provocatorio che un reale tentativo di dare vita a uno Stato sovrano, la micronazione non fu mai riconosciuta e, occupata dalle forze di Polizia, venne smantellata a pochi mesi dalla sua nascita. Sempre in Italia, e per la precisione in Liguria, troviamo Seborga, comune in provincia di Imperia che, in base a un presunto status di Principato, ritiene non valida l’annessione da parte del Regno di Sardegna e, a partire da metà del XX secolo, elegge un proprio principe, seppure con funzioni simboliche.
Se queste storie “di casa nostra” sono da considerare più che altro curiosità folkloristiche (pur non negando le sfumature utopistiche del progetto dell’ingegner Rosa), in altri casi pretese di indipendenza e creazioni di Stati ex novo sono una faccenda maledettamente seria. E non parliamo solo dei casi eclatanti come il Kurdistan, che, pur privo del riconoscimento di buona parte della comunità internazionale, continua a lottare per costruirsi una fetta di autonomia nei territori di Turchia, Siria, Iran e Iraq. E mettendo un attimo da parte la situazione in Ucraina, ci sono altre repubbliche che, con l’appoggio della Russia di Putin, senza esistere “ufficialmente”, si sono rese de facto indipendenti dalla Moldavia (come la Transnistria, da cui proviene la squadra di calcio dello Sheriff Tiraspol, avversaria dell’Inter nei giorni di Champions League, di proprietà della Sheriff, Holding che gestisce quasi tutti gli aspetti dell’economia locale, in un peculiare intreccio di pubblico e privato), dalla Georgia (l’Abcasia e l’Ossezia del Sud) e dall’Azerbaijan (il Nagorno Karabakh)
Sa bene quanto si paghino a caro prezzo i tentativi di reimmaginare le geografie precostituite, per esempio, Jimmy Stevens, ex guidatore di ruspe divenuto leader di un culto religioso, che nel 1980, nell’arcipelago di Vanuatu, con un esercito armato di arco e frecce proclamò l’indipendenza dell’isola di Vemerana, salvo poi ritrovarsi contro le forze militari della Papua Nuova Guinea, intenzionata a far valere la sovranità territoriale del vicino di casa che aveva appena ottenuto l’indipendenza da Francia e Regno Unito, e finire chiuso in carcere fino al 1991.
Meno sfortunato, ma ugualmente votato al fallimento è stato il Principato di Hutt River, distretto rurale australiano che nel 1970 ha proclamato l’indipendenza su iniziativa di Leonard Casley, agricoltore indispettito dalle quote sulla produzione di grano. Sul momento, l’unica risposta fu quella del servizio postale, che si rifiutò di consegnare la corrispondenza nella provincia. Casley, autoproclamatosi principe di un territorio che constava di 23 sudditi, ha anche dichiarato guerra all’Australia nel 1977 per non pagare le tasse, salvo chiedere un armistizio una settimana dopo. Hutt River è “sopravvissuto” a questo conflitto mai combattuto per decenni, ma nel 2020, a seguito di un’ingiunzione a pagare milioni di dollari australiani di tasse arretrate, il Principato ha optato per la dissoluzione.
Molte di queste storie di confini immaginati e contesi sono raccontate in Atlante dei paesi che non esistono di Nick Middleton. Il volume fa luce su vicende al limite del ridicolo e su circostanze al contrario drammatiche. E fa riflettere su quanto influenzino le nostre vite delle linee immaginarie che separano i popoli. Le contese del futuro, invece, dove avverranno? Lo spazio, ovviamente, è la prossima frontiera.
Articolo pubblicato su WU 112 (febbraio – marzo 2022)
Nella foto in alto: foto di Greg Bulla da Unsplash
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