BIANCOSHOCK – OSSA E MUSCOLI
Biancoshock ha realizzato opere di arte urbana con qualsiasi materiale e nei contesti e nelle situazioni più diverse. Indipendente e sperimentatore, con le sue opere arriva spesso velocemente al punto, consapevole dei rischi che comporta l’essere diretti
di Enrico S. Benincasa
Sono quasi vent’anni che Biancoshock crea e sperimenta nel mondo della urban art. Come tanti della sua generazione ha iniziato dal writing, ma nel corso del tempo ha sviluppato un modo di comunicare originale, diretto e difficilmente incasellabile. Può sembrare una frase fatta, utilizzata o utilizzabile per altri suoi colleghi, ma basta un veloce controllo su internet per rendersi conto di come questi aggettivi, nel suo caso, siano ben spesi. Diverse sue opere hanno fatto il giro del mondo, come Web 0.0 o Borderlife, idee che forse potevano venire solo a lui e che hanno contribuito a far girare il suo nome. Oggi continua il suo percorso come artista indipendente, esplorando tutte le forme possibili per dare sfogo alla sua urgenza di comunicare.
Nella tua carriera hai fatto oltre mille interventi di arte urbana. Per quanto diversi tra loro, ci sono delle caratteristiche che non mancano quasi mai nei tuoi lavori come ironia, provocazione e “sottolineatura” delle contraddizioni. Ce ne sono altre?
Direi che sono componenti presenti in quasi tutte le mie opere, a cominciare dalle prime fatte 20 anni fa. In più c’è un altro fattore: pur spaziando tra installazioni, sculture e performance site specific, tutto quello che faccio si manifesta in contesti sociali. Una volta solo in quelli pubblici “classici”, oggi anche in quelli digitali.
Il messaggio delle tue opere arriva in fretta, non ci si mette molto a capire cosa vuoi comunicare.
Per me è molto importante. Oggi mi dedico anche a realizzazioni più complesse e meno dirette, come per esempio i miei lavori a Malta nei centri per migranti. Da qualche tempo ho proprio diviso la mia produzione, giocando con il mio nome, tra le opere “Bianco”, che definirei più “stratificate”, e quelle “Shock”, che mi hanno fatto conoscere e che nascono per comunicare un concetto in pochi secondi.
A Valencia, per la recente mostra Emergency on Planet Earth, hai reinterpretato un’opera che avevi già fatto, Happy Meal XXL. È stato difficile rimettere mano a un progetto esistente?
È stato complicato, per indole sono sempre alla ricerca di cose nuove. All’inizio non ero convinto di farlo, ma le persone coinvolte e la serietà del contesto museale mi hanno fatto cambiare idea. La cosa bella, però, è stata realizzarla a distanza, per i motivi che ben sappiamo, perché materialmente è stata creata in loco su mie precise istruzioni. Una sfida nella sfida, insomma.
Non è la prima volta che fai “arte a distanza”, giusto?
Sì, A Via Nov è un altro esempio. Questa collaborazione con il paese di Civitacampomarano, in provincia di Campobasso, è avvenuta durante il primo lockdown. In questo comune di 300 anime è stata tolta la fermata del pullman, mezzo essenziale per chi vive lì. La linea si fermava comunque, ma non c’era più una pensilina e l’abbiamo creata insieme alla popolazione locale, associandole un immaginario “urbano” sulla base dei racconti e delle esperienze dei cittadini.
È lo stesso paesino di Web 0.0, il progetto nel quale hai reso “concreti” i social network e i servizi digitali?
Sì. Web 0.0 è nato grazie ad Alice Pasquini, che nel 2016 ha diretto la prima edizione di CVTÀ Street Fest, il festival locale di arte. Per comunicare con me, quando faceva i sopralluoghi, Alice doveva andare in cima alla collina di Civita perché era l’unico posto dove prendeva internet. Grazie a questo dettaglio ho trovato la chiave: in un posto dove i social non possono esistere per mancanza di connessione, ho fatto quasi una traduzione concettuale delle funzioni di quei servizi che, in realtà, sono sempre esistiti.
Qui hai giocato con i loghi e l’immagine di aziende e corporation, e per te non è una novità…
Mi piace inserire messaggi e concetti in un immaginario visivo comprensibile da tutti, indipendentemente della provenienza. Nel bene e nel male, tanti brand sono conosciuti ovunque e questo aiuta a veicolare il messaggio. Non è facile, perché alle volte c’è il rischio di cadere nel banale se il messaggio non è forte e originale.
L’altro rischio, forse, è sfociare nell’effetto lol.
Sì, è un altro rischio, anche pensando a vecchi lavori. Per esempio, la luminaria Buon Natale un cazzo che avevo fatto insieme a Elfo è diventata un meme, condiviso anche da realtà come Bastardidentro. La cosa preoccupante ma, allo stesso tempo, interessante, è che la fotografia di quest’opera è finita in un ambito completamente diverso come quello di un museo. Sono conscio che certi codici del mio linguaggio si addicano alla “memizzazione”. Alle volte, mi sono forse inconsciamente sentito meno libero, in altre occasioni ho fatto cose più leggere senza badare troppo a questo rischio. La differenza, alla fine, la fa la coerenza ovvero come quell’opera è poi inserita in un percorso artistico indipendente che ha “ossa e muscoli”.
Che cos’è il progetto 099?
È una collana che ho iniziato lo scorso anno con C’era una volta, il mio progetto di fiabe sviluppate coni titoli dei video di YouTube. Sono pubblicazioni indipendenti che presentano progetti senza un filo conduttore tra loro, stampati in edizione limitata in 99 copie. Il prezzo però è politico, solo 15 euro, una provocazione rispetto alle quotazioni che solitamente hanno queste cose. Ho deciso che non le ristamperò, quindi non sarà semplice averle tutte, ma è questo il senso dell’iniziativa.
Che progetti hai per il futuro?
Sto lavorando tanto su idee di installazioni urbane indipendenti che avevo lasciato indietro, sono progetti che ho bisogno di fare. Poi mi devo preparare per Trencin: questa città slovacca nel 2026 sarà capitale europea della cultura e sono tra gli artisti selezionati. Manca ancora tanto, ma sto già iniziando a programmare cosa fare.
Nella foto in alto: Biancoshock
Biancoshock su IG
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