CHEAP – PASTE UP IN THE CITY
Da festival a laboratorio permanente di arte pubblica, il progetto bolognese ha saputo trovare una dimensione che consente di portare avanti le proprie iniziative realizzate in carta e colla e capaci di creare cortocircuiti salutari per la cultura
di Enrico S. Benincasa
Il poster come medium, il paste up come tecnica, la call come strumento per intercettare artisti e nuove tendenze in ambito visivo e culturale. Cheap, nato come festival e trasformatosi in laboratorio permanente artistico, continua la sua attività principalmente a Bologna e, oltre alla sua classica call annuale, ne ha aggiunta una nuova, Icons, dedicata alle icone defunte che, per questa prima edizione, ha come “protagonista” David Bowie. I poster li vedremo in giro per la città a febbraio, come ci ha raccontato Sara Manfredi, una delle co- fondatrici di Cheap, con la quale abbiamo parlato dell’esperienza di questa realtà che si appresta, nel 2023, a tagliare il traguardo dei suoi primi dieci anni.
Cheap nasce nel 2013 a Bologna come festival, oggi però si definisce un laboratorio permanente di arte pubblica.
Sì, l’abbiamo fondato in sei donne, poi quando abbiamo deciso di comune accordo che l’esperienza del festival fosse finita due delle co-fondatrici hanno lasciato il progetto. Cheap però ha per natura una certa fluidità e porosità e dentro questo progetto passano, vengono e tornano creative, grafiche, artiste e attiviste. Identificarsi con questo nome per noi è un modo per mettere in discussione l’autorialità individuale. Come le Guerilla Girls usano la maschera di scimmia, noi usiamo il nome Cheap per rappresentare un’idea di arte pubblica.
Come è stato questo passaggio da festival a laboratorio permanente?
Non è stata una scelta difficile, semmai è stata una scelta dovuta. Lavorare in strada con un materiale effimero come la carta è un’incredibile palestra, ti allena a fare pace con il fatto che niente sia per sempre. Questa consapevolezza ha aiutato a chiudere un’esperienza senza fare un dramma e vivere quel momento come una possibilità. Non è stata una decisione monocausale, sicuramente ha pesato il fatto che i festival, con i loro meccanismi a volte feroci, non permettono di avere quel tipo di timing da dedicare agli artisti che noi vogliamo avere. In quei cinque anni, inoltre, abbiamo vissuto un cambiamento della percezione della street art: è diventata spesso uno strumento in mano delle amministrazioni per fare delle azioni di rigenerazioni urbana e si ritrovata in una discussione tra degrado e decoro urbano che troviamo un’aberrazione anche retorica.
Lavorate tramite call e recentemente ne avete lanciato una nuova, Icons, dedicata a David Bowie. Com’è nata questa idea?
Facciamo una call for artist annuale da dieci anni, che in genere lanciamo a gennaio. Quest’anno abbiamo introdotto una nuova call, chiamata Icons, dedicata alle icone defunte. Il delirio che accompagna l’elaborazione del lutto di massa di questi personaggi è molto interessante e abbiamo pensato che non potevamo perdere l’occasione. Siamo partite con Bowie e siamo contente di quello che sta arrivando e del livello di partecipazione. Penso che installeremo i poster selezionati a Bologna nella seconda metà di febbraio.
La call annuale è lo strumento principale per avere un punto di vista privilegiato sulla poster art e, in generale, sui linguaggi visivi a tutte le latitudini…
È certamente un osservatorio incredibile per captare le nuove tendenze del linguaggi visivi contemporanei, ma per noi è anche un dispositivo di decolonialità: una delle nostre mission è quella di turbare il paradigma della rappresentazione all’interno dello spazio pubblico in una città europea come vuole essere Bologna. Lanciamo un tema che viene elaborato secondo le specificità di chi partecipa. Riportare questa narrazione collettiva in strada significa esporre nello spazio pubblico un immaginario visivo che rompe con la consuetudine culturale di Bologna.
Ci sono esperienze o artisti che vi hanno ispirato e che ancora oggi vi ispirano?
Veniamo da una pratica artistica che ha un riferimento nell’opera delle Guerrilla Girls, ma citerei anche Kara Walker e Tania Bruguera. Ci sono delle curatrici artistiche che hanno uno sguardo che apprezziamo, dalla direttrice artistica dell’ultima Manifesta a Pristina Catherine Nichols al lavoro di Joanna Warsza con Publi Art Munich del 2018. È una curatela che non può prescindere dal contesto, un’idea di effimero che prevede interventi nello spazio pubblico con gesti installativi vicini alla performing art e che smettono di essere misurati in centimetri per essere misurati in secondi.
L’incontro con le persone nei momenti di affissione fa parte integrante della vostra esperienza di questi anni.
Mentre attacchiamo i poster la città è viva intorno a noi, è normale che incontriamo persone. Siamo interessate a cosa succede una volta che il lavoro è installato, fa parte del progetto rimanere in ascolto della conversazione che parte con chi attraversa e chi abita la città. Può succedere che il tutto sia accettato, può succedere che le persone ci contattino, può succedere che partiti neofascisti ci contrastino con interpellanze in comune o in altre sedi… Sicuramente succede sempre qualcosa quando portiamo un corpo di donna nudo in strada: dallo strappo ai tentativi di copertura con slip e reggiseni disegnati con lo spray.
Il corpo nudo femminile è sempre un tabù?
Lo è a meno che non sia erotizzato e risponda ai parametri della rappresentazione secondo i desideri maschili. Lo è quando è autodeterminato, quando è politico. Quando è così sia crea un cortocircuito e a questo cortocircuito siamo particolarmente dedite.
È un ostacolo che si riuscirà mai a superare?
Me lo auguro. Alla base c’è un problema culturale, politico e di cultura visiva. Ma è un paradigma, quello del corpo della donna, che sta già mutando. Sfidarlo significa sfidare una tossicità che è per tutti e per tutte. Sono processi che non sono immediati e a cui c’è una resistenza che trovo ottusa. Ma lo vediamo anche con lo schwa e i tentativi di rendere il linguaggio più equo, aperto e solidale. Si stanno facendo crociate contro questa lettera, ma c’è la resistenza anche semplicemente a usare la parola “avvocata”. C’è una difficoltà ad accettare cose che già esistono, figuriamoci ad affrontare un cambiamento del paradigma della rappresentazione visiva. Ma è qualcosa che è già in atto, qualcuno dovrà farsene una ragione.
Intervista pubblicata su WU 117 (dicembre 2022 – gennaio 2023)
Cheap su IG
Nella foto in alto: le attiviste del collettivo Cheap in azione a Bologna, foto di Margherita Caprilli
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