MATTEO WARD – JUNK
Fondatore del brand Wrad e VP di Fashion Revolution Italia, la realtà che si adopera per introdurre una visione etica e più equità nel settore moda, sta provando a scoperchiare cosa c’e sotto il fast fashion
di Giorgia Martini
Infiniti deserti di abiti, dune di tessuti abbandonati e consumati dal tempo e dalle intemperie, intere popolazioni asservite alla forza distruttrice di un consumo inarrestabile. Junk. Armadi pieni, la serie tv prodotta da Matteo Ward con Sky Italia e Will Media, non è solo un resoconto dei meccanismi dell’industria tessilee degli effetti prodotti dalla fast fashion. Junk raccoglie le macerie di un consumo capace di una potenza devastante quanto una calamità naturale, ma con la responsabilità morale, che solo gli esseri umani hanno. Con Matteo, che è anche co-autore e presentatore della serie, proviamo ad andare più a fondo di questo meccanismo.
In più occasioni nel corso di Junk emerge il fatto che, se qualcosa accade lontano da noi, è come se non accadesse. Le persone che affollano i negozi di fast fashion non sanno o non vogliono vedere come i loro vestiti sono finiti in quelle vetrine?
Di base credo esista una distanza profonda fra il reale impatto di una maglietta e la percezione che di esso hanno le persone. Poi c’è un secondo fattore, la stessa inerzia che ci spinge a fumare l’ultima sigaretta o a mangiare l’ultimo cioccolatino. Comprare fast fashion aumenta la produzione di dopamina e crea dipendenza. Dà un breve senso di appagamento, ma che tendi a ricerca- re sistematicamente. E ogni volta che acquisti qualcosa, ti chiedi: «Cosa mai potrà accadere?».
Come incidono su questo meccanismo le linee “eco” dei brand di fast fashion?
È un po’ come quando andiamo in un fast food e prendiamo il panino vegano. Sappiamo che non stiamo facendo una scelta etica, ma lasciamo che le confezioni verdi in carta riciclata sopiscano la nostra coscienza. Esiste un indice molto utile per mappare i comportamenti umani, il Value Action Gap, che mostra il differenziale fra l’intenzione di agire bene e l’agire bene, o più in generale, la distanza tra ciò che si dice e ciò che si fa.
Gli abiti uniscono l’acquisto come ricompensa per le fatiche quotidiane al fatto che il modo in cui vestiamo ci presenta al mondo. Quale dei due fattori pesa di più?
Non credo ci sia una prevalenza dell’uno sull’altro. Dovremmo piuttosto ricostruire storicamente come questi elementi sono diventati dirimenti. Un momento di svolta è segnato dal pubblicitario Edward Barneys che, a metà del Novecento, inventò le “Public Relations”. Una nuova disciplina, concettualmente sovrapponibile alla propaganda, ma che così etichettata era molto più attrattiva per il mercato. Barneys, attraverso la pubblicità, puntava a superare il concetto di bisogno, per approdare al desiderio e trasformare gli oggetti in simboli, in mezzi per esprimere se stessi.
Nell’ultimo episodio di Junk utilizzi l’immagine della piramide e spieghi come stiamo sacrificando le fondamenta, per aumentare l’altezza. Quasi mai compriamo abiti per coprirci, come possiamo stabilire di cosa abbiamo bisogno e di cosa no?
Evidentemente coprirci non è il nostro unico bisogno. Scegliamo cosa indossare per sentirci adeguati, per presentarci al mondo. Il punto credo sia regolamentare in modo più ferreo le strategie di comunicazione dei brand di fast fashion. La pubblicità può avere effetti deleteri sulla nostra salute mentale e, in questo caso, anche sull’ambiente e sui lavoratori. Come i pacchetti di sigarette avvertono sugli effetti del tabacco, allo stesso modo, dovremmo far sì che, chi acquista una maglietta a cinque euro, sappia da dove viene, cosa comporta, dove finirà e possa decidere in modo più consapevole se ne ha effettivamente bisogno.
Acquistare un capo fast fashion richiede pochissimo sforzo al consumatore, mentre la moda etica impone una riflessione e costi più elevati. Su cosa si può fare leva per ren- dere accettabile questo sforzo?
Questa è la prima rivoluzione della storia umana che chiede di fare un passo indietro anziché uno in avanti. Per la prima volta non cambiamo per avere di più, ma per avere di meno, almeno in termini di prodotti. Esiste un grafico che spiega quali sono le strategie più efficaci per ispirare comportamenti positivi, come farci apprezzare di più spendendo 40 euro per una maglietta piuttosto che per tre: al primo posto la legge, molto sotto informazione e educazione. Il più degli acquisti che facciamo sono figli della parte irrazionale del nostro cervello, per frenare gli impulsi non basta essere informati.
La crescita del second hand rivela una presa di coscienza, espressione di un potenziale di cambiamento radicale oppure abbiamo soltanto spostato la nevrosi legata all’acquisto dal nuovo all’usato?
Il second hand al momento è la via più responsabile per acquistare, ma non può essere la soluzione. Se non riduciamo il consumo, per alimentare l’usato, paradossalmente, servirà produrre il nuovo. Quando parliamo di sostenibilità non esiste il materiale o la piattaforma definitiva. La politica e il mercato tendono ad agire sempre orientati al breve termine e pensare di produrre capi durevoli, in questo contesto, è molto complesso. Per questo credo nella legge come strumento per intervenire sulle politiche produttive, ma soprattutto sulla coscienza collettiva.
Intervista pubblicata su WU 120 (luglio 2023). La foto in apertura è di Adriano Russo
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