FRANCESCA PASQUALI – IL FAVOLOSO MONDO DELLA NATURA
Le sue opere, spesso realizzate con scarti di lavorazione anche di origine plastica, sono fortemente connesse con l’ambiente e le sue forme e non sono passive, si fanno “attraversare” rompendo la classica barriera che si frappone tra artista e spettatore
di Carolina Saporiti
Somiglia ad Amélie Poulain Francesca Pasquali, non solo nei lineamenti del volto, ma anche per il mondo che costruisce attraverso le sue opere d’arte. Centinaia di cannucce assemblate e “affogate” in una parete a specchio, filamenti sottili e verdi che ricordano le alghe del mare, tessuti intrecciati e oggetti di uso quotidiano accostati. Trovarsi di fronte a un’installazione di Pasquali è un po’ come entrare nella sua testa e percepire la sua sensibilità. A volte si possono anche toccare o ci si può “immergere” in esse diventando protagonisti, cosa che siamo sempre meno abituati a fare ed è un peccato, perché come dice l’artista, «solo partecipando a qualcosa, lo si può modificare».
La prima cosa che salta agli occhi delle tue opere è il contrasto tra i richiami al mondo naturale, nelle forme e nei colori, e l’uso di materiali plastici…
È un contrasto che ho indagato nella mia tesi perché da sempre i miei lavori si sono caratterizzati in questo senso. Ho sempre lavorato prendendo materiale e trasformandolo in opere tridimensionali, caratterizzate da spontaneità e naturalezza, in cui sono visibili le influenze dell’Arte Povera, di quella di Bruno Munari e del Ready Made. Durante gli studi ho trovato un libro in Francia che riproduceva immagini molto ingrandite di animali e vegetali: non era un libro scientifico, ma piuttosto un’indagine sulla loro estetica e che mi ha permesso di confrontare il mondo naturale con quello creato dall’uomo, trovando molte similitudini. È stata una scoperta importante.
Quale è il tuo legame con la natura, quindi?
Vivo in campagna da sempre. In questo sta la mia naturalità, negli schemi costruttivi. Gli schemi con cui la natura crea le sue forme sono molto simili alle texture che creo con i materiali del mio tempo. Sono forme archetipiche. Il processo industriale si rifà alla semplicità formale della natura.
Parli di forme archetipiche. Sono forme che conosciamo e che “ci appartengono”?
Sì, i primi lavori di Bruno Munari lavoravano proprio con queste forme che sono quelle con cui tutti abbiamo iniziato ad apprendere il mondo da bambini. Ritrovarle da grandi e riconoscerle, attiva qualcosa, inconsapevolmente.
I tuoi lavori, in questo senso, sono molto coinvolgenti. Alcune opere si possono toccare, in altre ci si può camminare attraverso. Sono opere materiche che attivano i sensi…
Di solito l’arte non si può toccare, la mia rompe i canoni. Deve essere per tutti. Ci sono due componenti che si equilibrano. C’è un impatto in chi guarda, dato dalla dimensione e dalla immersione nell’opera, che crea pathos fisico e che aiuta a rompere la distanza che spesso si crea di fronte all’arte. Chi è più nel mondo dell’arte, può fare altre riflessioni, approfondendo il discorso sulle forme, sull’estetica delle opere e sul mio modo di lavorare.
Pensi che viviamo in un’epoca in cui abbiamo perso, in parte, l’uso dei sensi?
La forma e la materia rievocano memorie di bambino e stimolano i sensi e il corpo – con le sue reazioni – può aiutare a capire le cose, in questo caso l’opera d’arte. Facendoti interagire con le mie installazioni, ti sto chiedendo di entrare nella mia testa e di capire come lavoro in studio. Una materia che può essere al primo colpo d’occhio respingente diventa, se la tocchi, se la guardi attentamente, se l’attraversi, accogliente. Con i sensi si fanno riflessioni e si portano a casa esperienze e memorie. Siamo bombardati di cose inutili ogni giorno, è importante portarsi a casa emozioni. Io cerco di stimolare all’uso dei sensi, invitando le persone a lasciarsi andare di più.
Il tema della sovra-stimolazione è molto attuale. Siamo stimolati, come dici tu, ma in maniera quasi sempre passiva…
Tutte le immagini che vediamo, anche della guerra, diventano effimere, talmente sono frequenti. Ma soprattutto manca spesso una componente fisica, ci dimentichiamo di vivere. In questo anche la Digital Art, che è molto coinvolgente, in realtà non permette di diventare protagonisti. Siamo costantemente spettatori. L’Arte Cinetica insegnava questo: a essere osservatore, ma anche a partecipare e a modificare quello a cui ci si trovava di fronte.
Come prendono vita le tue opere? Ci racconti il processo creativo?
Se mi commissionano un lavoro, parto dallo studio del luogo e vado alla ricerca di materiale di recupero presso aziende: non lo posso scegliere, è quello che è. In questo caso è un po’ come se fosse l’ambiente a decidere l’opera. Altre volte invece è il materiale che trovo che stimola la creazione di un’opera, possono essere anche oggetti banalissimi, che usiamo tutti i giorni, come le cannucce.
Perché lavori tanto con materia plastica, nonostante la tua vicinanza al mondo naturale?
Perché sono materie del nostro tempo, quindi c’è molto scarto ed è un modo per riutilizzarlo. Non è la materia il problema, siamo noi. Ma lavoro anche con materiali naturali: mi è capitato di collaborare con aziende tessili che mi hanno fornito materiale pregiatissimo, le cimose, con le quali ho tessuto a mano grandi centrini creando uno spazio immersivo.
Quali sono i tuoi progetti in corso e futuri?
Al momento la mia opera Sempreverde, un’installazione site specific, è esposta al Centre de Conférences Capital 8, a Parigi; Plot, un’installazione ambientale creata con scarti di lana, cashmere, cotone e cimose, intrecciati a mano, realizzato in collaborazione con Consorzio Detox e Dino Zoli Textile, fa parte della mostra Utopiche seduzioni. Dai nuovi materiali alla Recycled Art. Da Piero Manzoni alle ultime generazioni, presso la Fondazione Dino Zoli, a Forlì. Straws è a Bologna all’interno della mostra Crossing. Da Klimt a Basilé, da Sironi a Bauermeister, allo Spazio Arte Torre Unipol. Opere permanenti sono Licheni a Modigliana e Mosaico tattile, esposto nella collezione permanente del MAR.
Intervista pubblicata su WU 123 (dicembre 2023)
La foto in alto di Francesca Pasquali è di Fabio Mantovani (Copyright FPA Archive)
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