L’OFFICINA DELLA CAMOMILLA – DOLCEZZA DEVIATA
La band guidata da Francesco De Leo è tornata con un nuovo album, Dreamcore: un magnetico melting pot di citazioni, immagini e riferimenti, che trova piena coesione a livello di sound e sotto l’aspetto poetico
di Giulia Zanichelli
Il nuovo album de L’Officina della Camomilla, una tra le band considerate parte del ristretto cerchio delle capostipiti dell’indie di casa nostra, è un ritorno atteso e che non delude. Dreamcore si muove in quel mondo dolce, sognante e surreale a cui ci la band ci aveva abituato, allucinato esvuotato di ogni retorica, vivido e immediato. Con Francesco De Leo, deus ex machina del progetto, abbiamo parlato dei motivi di questo ritorno e di come è nato questo nuovo disco, ispirato da cinema e letteratura, con il Do It Yourself come stella polare sin dalla prima nota del primo brano.
Dreamcore segna il ritorno dopo anni di assenza come L’Officina della Camomilla, anche se tu non sei mai stato fermo: in mezzo ci sono stati i tuoi lavori solisti. Com’è arrivato il momento di riformare la band?
La scintilla che ha riacceso il progetto è scoccata l’anno scorso, quando abbiamo suonato al Mi Ami. Da lì è tornato il desiderio di esibirci live, di fare un tour, di lavorare a un disco. Un altro motivo è stata l’esplosione su TikTok di un nostro vecchio brano, Un fiore per coltello: da quello si è creato un grande passaparola tra la Gen Z, che ha “resuscitato” tante nostre vecchie canzoni, e la band è diventata conosciutissima soprattutto tra i giovani. È un fenomeno che si è autogenerato e ha fatto nascere nuovo pubblico, che non aveva mai visto un concerto live dell’Of- ficina: abbiamo pensato di tornare anche per loro.
Hai attraversato la scena cosiddetta indie fin dal dal 2008. Come la vedi oggi? Qual è lo stato di salute della musica indipendente italiana?Diciamo che all’inizio era un’altra cosa, era immersa in un contesto diverso: un contesto di circoli Arci, di passaparola, di band che suonano negli scantinati, registrano le demo e poi ce la fanno. Dovevi fare molta gavetta, ore di sale prove, concerti senza nessuno davanti e, anno dopo anno, arrivava un’evoluzione. Questo iter non c’è più: tutto è più virtuale, basato su piattaforme streaming e social. Prima dovevi per forza passare da un’etichetta, adesso è la major che viene da te e ti pesca dai social. Adesso, poi, è tutto un po’ più pop, “Spotify pop” (ride, NdR). In ogni caso la scena oggi è florida, anzi, satura: ogni venerdì le playlist esplodono di musica. È bello che si sia creato tutto questo, spero solo che a livello artistico non si vada a perdere di contenuti, che non si suoni solo per fare le hit.
Perché hai pubblicato con la tua etichetta indipendente, Hachiko Dischi?
L’Officina è nata come progetto DIY, pubblicavamo su MySpace in modo totalmente autarchico. Questa attitudine fa proprio parte del progetto, anche perché ci ispiriamo a tanti artisti in vari campi, dal cinema indipendente alla musica, che si muovono così. Ora facciamo le nostre cose, ma un domani non escludiamo di coinvolgere altre realtà e artisti: è un primo passo verso un’etichetta rigogliosa, piena di personalità a noi affini.
Veniamo al disco: è nato in pochissimo tempo, quindi siete stati super produttivi.
Sì, anche se il mio processo creativo è caotico: io conservo tante cose, musiche, beat, testi, frasi che raccolgo nel corso del tempo e inserisco in questa sorta di archivio personale che ho sempre a disposizione. Mi faccio influenzare dalle cose che leggo e dai film che guardo: per esempio in questo disco ci sono tanti riferimenti letterari, da Bret Easton Ellis a J. G. Ballard. E poi William Burroughs: questa estate mi sono fissato con I ragazzi selvaggi, un libro oscenamente pornografico e allucinatorio, apprezzato da artisti come Ian Curtis, David Bowie e Patti Smith. Pensa, i Duran Duran dovevano fare la colonna sonora della trasposizione cinematografica. Non è mai stata fatta, ma loro per il film avevano composto The Wild Boys, che è rimasta come hit. E poi, in fatto di cinema, guardo Harmony Korine, Gus Vas Sant, Larry Clark… Korine è il nostro faro dell’esistenza. Quando è nata l’Officina ero più giovane, era tutto legato all’età preadolescenziale, poi crescendo componi e scrivi in modo leggermente diverso: sei sempre tu, lo spirito guida è sempre quello, però lo porti in una veste più adulta.
Perché Dreamcore era il titolo giusto per questo album?
Questa parola riassume appieno i valori, gli ideali dell’Officina: il sogno e l’essere “violenti”, due opposti che si uniscono. La dolcezza dell’infanzia, delle visioni, della psichedelia che però si unisce alle devianze, alla “crudeltà”. Una dolcezza deviata che Korine ha saputo riassumere bene con le immagini: basta pensare al Bunny Boy di Gummo, il ragazzino con le orecchie da coniglio che sputa giù da un ponte e che sniffa la colla.
Dreamcore è stato definito «un concept album sulla decadenza dell’Occidente»: come si può arrestare questa decadenza?
Parlo della decadenza dal punto di vista della mia generazione, nel senso del non poter avere quello che magari ci aspettavamo. Prendiamo come esempio Woodstock ‘99: per me è stato un episodio spartiacque, c’è stato un prima e un dopo, doveva essere un festival della pace e dell’amore e invece è diventato l’opposto. Siamo un po’ segnati, sfigurati da quello che ci è successo, però siamo contenti lo stesso, riusciamo a essere felici.
Non ci sono feat, una rarità oggi. Perché?
In realtà nel disco abbiamo coinvolto Altea dei Thru Collected, che abbiamo scoperto essere una nostra fan. Abbiamo deciso di coinvolgerla perché in tutte le canzoni dell’Officina c’è sempre una voce femminile, ci piace avere questo spirito che accompagna le parole delle canzoni, come se fossimo in due a cantarle.
L’intervista è stata pubblicata su WU 124 (febbraio 2023)
Nella foto in alto: Francesco De Leo e Stefano Poletti de L’Officina della Camomilla
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