AGOSTINO IACURCI – IL BAMBINO CHE DISEGNAVA
Classe 1986, l’artista di Foggia ha appena vinto la XXII edizione del Premio Ermanno Casoli. Poliedrico nelle sue creazioni, passa da progetti site-specific outdoor e su larga scala a pittura, scultura e illustrazione
di Marzia Nicolini
Nato a Foggia nel 1986, dopo lunghe peregrinazioni all’estero Agostino Iacurci ha trovato la sua casa a Bologna, pur conservando una visione esterofila, da cittadino del mondo. Artista poliedrico, si divide agilmente tra pittura, scultura, disegno e installazione, spesso cimentandosi in progetti pittorici XXL, dall’imponenza architettonica. Con alle spalle numerose mostre personali, tra cui le recenti Making Room a Seul (2023) e The Traveling Landscape alla Pacific Design Center Gallery di Los Angeles (sempre 2023), Agostino è da poco stato scelto come artista vincitore della XXII edizione del Premio Ermanno Casoli. Il compito: dar vita a un’opera d’arte site-specific per la sede di AirForce a Cerreto D’Esi (AN), azienda del gruppo Elica. Il risultato del suo lavoro sarà svelato a giugno. Nel frattempo Agostino Iacurci non conosce la parola noia, immerso com’è nel suo costante processo creativo.
Come nasce la tua vocazione di artista?
La vocazione credo sia innata. Ho trovato degli appunti di mia madre riferiti a quando ero piccolissimo: annotava che ero solito trascorrere gran parte del mio tempo a disegnare, provocando lo stupore di amici e parenti.
E quando hai compreso che disegnare sarebbe diventato un mestiere?
Ho capito di dover provare a diventare artista di professione dopo una breve esperienza da designer presso una grande azienda in Germania. Era il lavoro dei sogni: a tempo indeterminato, ben retribuito, una posizione agognata da molti dei miei colleghi. A dispetto di tutto, però, ero infelice. Quindi ho capito che dovevo ricominciare dalle tre cose che sapevo fare, come direbbe Troisi. A partire dal percorrere la molto più tortuosa via della carriera artistica.
C’è una tua opera alla quale sei più legato?
Una delle cose di cui sono più felice è la capacità di non legarmi ai lavori, così possono andare per la loro strada appena li ho conclusi. Certo, ho avuto la possibilità di fare esperienze intensissime: penso, per esempio, ai due murales realizzati con alcuni detenuti del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, a Roma, o a tutti i viaggi che ho fatto. Sono ricordi che porto sempre con me e che possono riemergere nelle circostanze più inattese.
Muri, tela, carta. Qual è il supporto che preferisci?
Per me alla fine è sempre una questione di equilibri tra spazi da occupare e immagini da liberare, forse a causa dei miei trascorsi giovanili da squatter mancato. Non saprei esprimere una preferenza: trovo salutare una sana alternanza tra i ritmi frenetici e la fatica fisica del cantiere e i tempi dilatati e più rilassati del lavoro che solitamente svolgo in studio.
Attualmente a cosa stai lavorando?
Lavoro sempre a diversi progetti simultaneamente. Al momento sto ideando due interventi per degli edifici, uno a Boston e uno a Francoforte, oltre a progettare l’opera per il Premio Ermanno Casoli. Ho appena completato una collaborazione con una grande artigiana, Rosetta Gava, per un oggetto creato con la tecnica della legatura a piombo: verrà presentato all’interno della collettiva Doppia Firma a Villa Mozart, a Milano, durante il mese di aprile.
Da artista italiano che ha vissuto tanto all’estero, quali sono a tuo parere le difficoltà di questa professione in Italia?
Credo che al nostro sistema manchi soprattutto continuità. Senza scomodare chimere come i sistemi di reddito per gli artisti, ben presenti in Belgio e Francia, penso per esempio al sistema degli studi d’artista berlinesi promosso dall’associazione indipendente BBK, che permettono ad artisti emergenti o professionisti, entro certe fasce di reddito, di avere uno studio nel momento cruciale dell’inizio della carriera, e permettono ad artisti che fanno ricerche interessantissime, ma che non hanno un output commerciale, di lavorare in condizioni serene. Parliamo di centinaia, forse migliaia, di studi in tutta Berlino. Penso inoltre alle Kunsthalle e Kunstverein tedesche, che producono mostre in maniera molto più agile e capillare dei pochi musei che ci sono in Italia. In generale, lavorando anche con una galleria tedesca, mi rendo conto che loro vanno a cercare gli artisti nelle mostre di fine anno delle varie accademie, dove viene quasi voglia di nascondere i propri studi. Se non si tratta di pedigree ottenuti in costosissime scuole internazionali, in Italia sembra di non poter essere presi sul serio.
Cosa ci puoi raccontare della XXII edizione del Premio Ermanno Casoli?
È un premio particolare, perché viene dato all’artista e non all’opera, quindi apprezzo tanto la fiducia che hanno avuto in me. L’idea a cui stiamo lavorando con il curatore Marcello Smarrelli e con tutto il team della Fondazione è un lavoro immersivo che coinvolga gli spazi e i 100 dipendenti di Airforce, azienda del gruppo Elica, promotrice del premio.
Ti capita mai di cadere nella sindrome da tela bianca?
Non credo molto all’ispirazione, per me si tratta di una disciplina di ricerca e pratica quotidiana. Ci sono dei periodi più o meno vivaci, ma cerco di mante- nere la calma e approfittare dei momenti di stallo per sperimentare. Di solito quanto mi sento impantanato fare attività fisica, mangiare bene e immergermi nella lettura mi è di grande aiuto.
Chi sono gli artisti contemporanei che segui?
Tanti e alcuni sono amici, per esempio Carlo e Fabio Ingrassia e Ruth Beraha, che fanno lavori e hanno approcci diversissimi dal mio, ragione per cui osservarli e ascoltarli mi stimola molto. Sol Calero, Pablo Bronstein, Ad Minoliti, Nicolas Party, Thomas Grünfeld, sono artisti a cui mi sento affine per l’uso dello spazio e per le tematiche trattate, ma i nomi sono così tanti che probabilmente tra mezz’ora darei una risposta diversa.
Intervista pubblicata su WU 125 (aprile 2024). Nella foto in alto: Agostino Iacurci, foto di Lorenzo Palmieri
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