BIENNALE 81 – QUEER DI LUCA GUADAGNINO
L’ultimo film di Luca Guadagnino, tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, vede come mattatore assoluto Daniel Craig nei panni di Lee, scrittore in astinenza invaghito del giovane Allerton (Drew Starkey) nel cuore del Messico
di Davide Colli
Portare sul grande schermo l’immaginario vistosamente elaborato della penna di William S. Burroughs non rappresenta un’impresa di immediata riuscita. Basti pensare che tra i pochi autori che vi si sono cimentati c’è un maestro come David Cronenberg, con una visione altrettanto definita e multiforme, nel caso de Il Pasto nudo (1991).
Non è novizio alla pratica di adattamento nemmeno Luca Guadagnino, che già con Suspiria e Call Me By Your Name (ma pure con l’abbandonato remake di Scarface scritto dai fratelli Coen) aveva dimostrato di saper imprimere la propria impronta, stilistica e tematica, rielaborando materiale preesistente. Al tempo stesso, l’operazione dietro Queer non era per niente facile, sia per la brevità del romanzo, sia per la narrazione più spoglia e rarefatta rispetto ad altre opere di Burroughs, che si scontra con l’estetica del regista italiano sempre più compiaciutamente virtuosa.
Eppure si tratta di una trasposizione dal genere cangiante (dal noir al dramma erotico si sfocia quasi allo stoned movie) pressoché perfetta, in grado di preservare l’essenza del prodotto originale, senza il timore di commettere atti di infedeltà. Il concetto stesso di “disincarnato”, ricorrente lungo Queer, racchiude perfettamente il senso del processo lavorativo: uscire dal proprio contenitore di partenza per ritrovare il proprio sé.
in Queer Guadagnino compie questo procedimento rispecchiandosi nel già alter ego di Burroughs Lee, scrittore consumato dalla propria sessualità e dalla solitudine, al quale presta il volto un archetipo di divo hollywoodiano come Daniel Craig. La scelta di casting, che fin da subito ha riscosso attenzione, consiste in un consapevole abbattimento di aspettative pregresse, nonché di rivoluzione dell’icona maschile per eccellenza, il James Bond più longevo.
Lee si aggira in cerca di consolazione in altri uomini errando in una Città del Messico, completamente ricostruita a Cinecittà, volutamente artificiosa, evidenziando la sua natura di spazio mentale, sterile e asfissiante, del protagonista. Proprio conservando questo vagare senza meta, in una spirale discendente, con un obiettivo sfocato agli occhi dello stesso personaggio principale, che Guadagnino coglie e conserva l’identità metamoderna del romanzo. L’autore, tuttavia, esonda da quelle esigue pagine ed esce dalla dimensione letteraria, sforando in quella metatestuale, ritrovando sé stesso nell’opera, ma anche nella vissuto altrui. Proprio con questa esplicita deriva al di fuori del romanzo che Guadagnino si addentra ancor di più in esso, riscoprendo il senso di Queer: un’appassionata quanto disperata ricerca di un panteismo nell’intera umanità.
Nella foto in alto: Daniel Craig and Drew Starkey, credits Yannis Drakoulidis
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