POST NEBBIA – DO IT YOURSELF
Nel panorama musicale italiano in pochi hanno saputo catturare con tanta lucidità il senso di spaesamento e disillusione di un’intera generazione come ha fatto la band veneta. Ecco la nostra intervista prima di vederli in tour da gennaio
di Dario Buzzacchi
Con il loro nuovo album Pista Nera, uscito a novembre per Dischi Sotterranei, i Post Nebbia, band padovana guidata da Carlo Corbellini, si spingono oltre i confini del già esplorato. Affrontando senza cliché o retorica un tema universale: il crollo delle utopie e delle promesse di progresso. Un progetto che gioca, sin dal titolo e la cover, sull’ossimoro tra un immaginario evocativo del candore di cime innevate, e per converso su tematiche disilluse, supportate da un sound nero e graffiante, forgiato dalla lunga esperienza del tour. «Un disco – soprattutto – pensato per il live», ci ha detto Carlo. E dal 23 gennaio, al Largo Venue di Roma, prenderà il via il tour dei Post Nebbia organizzato da Panico Concerti in giro per i club di tutta Italia. In attesa di ascoltarli dal vivo, abbiamo chiacchierato, proprio con Carlo Corbellini, di Pista Nera, del tour e di tanto altro, e questo è quello che ci ha raccontato.
Partiamo dal vostro ultimo album, Pista Nera, che esplora il sentimento di vertigine generazionale: quanto di questa sensazione nasce dalle vostre esperienze personali e quanto da una riflessione collettiva sul presente?
Sicuramente ha giocato molto il fatto di essere nati negli ultimi colpi degli anni Novanta, che forse è stato il periodo più prospero per la storia dell’umanità. La conseguenza di ciò è che, in un modo o nell’altro, tutta la nostra esperienza di vita è connotata, più o meno evidentemente, da un senso di discesa, di decadenza.
Dal kraut rock alla bossa nova, passando per il punk e la new wave, Pista Nera è un coacervo di influenze. Come avete lavorato per fondere generi diversi in un disco coerente?
Il grande filtro che fa stare le cose insieme in maniera più o meno coerente è la band: abbiamo deciso di limitare fin da subito i suoni dentro al disco in modo da avere un risultato il più unitario possibile, basandoci solo sui mezzi (e le mani) che abbiamo a disposizione.
Qual è il confine tra denuncia sociale e intrattenimento musicale nei vostri testi?
Direi che l’umorismo e il cazzeggio nei testi sono un modo per far passare alcune cose in una maniera che somigli meno a una predica dal pulpito. Che, considerando l’argomento del disco, era un rischio concreto. Spero di averlo evitato, soprattutto perché le esperienze di vita che compaiono nei testi, e da cui poi si universalizza, sono state fondamentali nell’arrivare a queste conclusioni.
In che modo i concerti live hanno influenzato il vostro processo creativo in studio?
Aver suonato tanto con il tour del disco scorso non solo ci ha fatti crescere come musicisti, ma ci ha anche dato una consapevolezza maggiore di cosa effettivamente è divertente o naturale da suonare. Non che prima non ci fossero questi momenti, ma sicuramente lavorare a un disco pensato per una band solo al computer, finché non devi andare in tour, implica il rischio che alcune cose non siano così direttamente traducibili come pensavi. Questa volta volevamo un disco pensato per essere suonato dal vivo.
La cover del disco ha una storia particolare. Ce la raccontate?
È una foto di mio bisnonno, credo degli anni Venti o Trenta. Appena l’ho vista, ho pensato che andava sfruttata in qualche modo, perché la trovo, a prescindere dall’universo del disco, una foto bellissima, piena di livelli e profondità, non solo per quello che riguarda la composizione ma anche la suggestione.
La filosofia DIY è una costante nel vostro lavoro. Cosa significa per voi, oggi, mantenere l’indipendenza artistica?
Significa fare musica per le persone, lavorare in un modo per il quale il fan non sente di avere barriere tra lui e noi. Cosa che a volte non succede in realtà più strutturate, dove per sopravvivere alla competizione interna devi sottostare a dinamiche che, a mio parere, rendono molto difficile il lavoro di fare arte in maniera sana.
Come pensate che il pubblico reagisca a un disco che si pone così apertamente contro l’edulcorazione della realtà?
Ci sembra, da quello che abbiamo visto finora, che stia reagendo bene! Lamentarsi è molto fuori moda, ma i problemi esistono oggi più di ieri. La scommessa di questo disco risiede proprio in questo: riappropriarsi della rabbia e del disgusto, due emozioni che negli ultimi anni, almeno nella musica in Italia, hanno lasciato posto a sentimenti più individuali e introspettivi. C’è la curiosità di vedere cosa succede a fare un disco che, da una prospettiva individuale, prova a puntare lo sguardo fuori, volendo autocitarsi, dalla pista innevata artificialmente (dove solitamente teniamo lo sguardo) verso il terreno secco e marrone che la circonda.
Come hai detto prima, Pista Nera è un disco che sembra perfetto per il live. Tra poco sarete di nuovo in tour: che aspettative avete per questa nuova fase live?
Sì, saremo in tour a partire da fine gennaio. Faremo una decina di date nei club, poi si vedrà. Proviamo questo disco da un anno ormai: ogni concerto a cui siamo andati in questo periodo ci ha fatto venire l’acquolina in bocca, quindi direi che siamo pronti!
Nella foto in alto: Post Nebbia, foto di Riccardo Michelazzo
Quest’intervista è stata pubblicata su WU 129 (dicembre 2024)
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