L’INEVITABILE PESO DEL RACCONTO IN ‘MANK’
Mank di David Fincher è dedicato allo sceneggiatore di ‘Quarto Potere’ Herman J. Mankiewicz e arriva il 4 dicembre su Netflix
di Davide Colli
A un’iniziale e superficiale occhiata, Mank può essere erroneamente liquidato come il “solito” sguardo orgoglioso che Hollywood pone nei confronti del suo glorioso passato, perfettamente confezionato e redatto come una lettera d’amore a questa macchina creativa e produttiva, ritratta in quella finestra storica nella quale inizia a perdere la sua ingenuità e a concepire il proprio potenziale di mass media funzionale per il panem et circenses.
Una sintesi sbrigativa come questa, tuttavia, sminuirebbe notevolmente il ritorno dietro la macchina da presa di David Fincher (a sei anni da Gone Girl – L’Amore Bugiardo), il quale sembra essere maggiormente interessato al ruolo delle storie (con la s minuscola) nelle vite dei difettosi e sciagurati omuncoli che gravitano attorno all’industria dell’intrattenimento, focalizzandosi sulla figura marginale di Herman J. Mankiewicz, al quale presta il volto un Gary Oldman estremamente misurato nel tradurre l’attitudine burlonesca di quella che, ai tempi, era considerata una tra le personalità più esilaranti e frizzanti dell’ambiente.
Mank rappresenta quindi il ritratto di un individuo prosciugato e annichilito dal proprio estro creativo e ci racconta di Mankiewicz nel suo calo a picco e nella sua parziale redenzione. Il film segue il percorso di questo personaggio nel tentativo di catturare la sua personale “balena bianca”, ovvero quella storia che gli è sempre stata accanto e che lo ha corroso psicologicamente e fisicamente fino alla sua trasposizione su carta.
Fincher in Mank sparge con parsimonia quei riferimenti in grado di illuminare gli occhi degli estimatori di Quarto Potere, a cominciare dalle esigue apparizioni su schermo di William Randolph Hearst, fonte d’ispirazione principale del protagonista del capolavoro del 1941, e del suo semi-factotum Orson Welles.
Queste due icone, avvolte dai grigi e dai neri della vivida ma al tempo stesso slavata fotografia del talentuoso esordiente Erik Messerschmidt, appaiono come presenze quasi demoniache che, con la loro imponenza e aggressività, tormentano, in due periodi chiave della sua carriera, il già tumultuoso Mankiewicz. Hearst e Welles appesantiscono ulteriormente il fardello che quest’ultimo si ritrova a trasportare, ma al tempo stesso fornendogli una via d’uscita da quel circolo vizioso e sfarzoso nel quale era rimasto imbrigliato.
Anche in Mank stesso, quindi, la realtà penetra nella finzione e il film prende chiaramente la forma di un sentito omaggio da parte di Fincher non tanto nei confronti del periodo d’oro di Hollywood, ma al padre Jack, autore della sceneggiatura iniziale di questo film ultimata sul finire degli anni Novanta. Scomparso nel 2003, non è riuscito ad assistere al prendere forma dell’operato di tutta una vita.
Nell’immagine in alto: Gary Oldman in ‘Mank’, photo courtesy Netflix
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