ULRICH SEIDL – TRA ‘RIMINI’ E RELIGIONE
Ulrich Seidl, classe 1952, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico austriaco, ci racconta di ‘Rimini’, suo ultimo film, in uscita nelle sale italiane dal 25 agosto grazie a Wanted Cinema
di Davide Colli
Durante un tour promozionale che ha toccato alcune città italiane, abbiamo avuto modo di incontrare con Ulrich Seidl, a Milano per presentare Rimini, sua ultima opera, reduce dalla partecipazione in concorso all’ultima edizione del Festival di Berlino.
In Rimini il protagonista indiscusso è Richie Bravo (Michael Thomas, attore feticcio del regista), il quale, dopo essere tornato alla casa di famiglia per il funerale della madre, cerca di riavviare la sua carriera da cantante presso la riviera romagnola. L’impresa non sembra delle più facile, a cominciare dagli svuotati luoghi di villeggiatura, e il passato, i cui fasti appaiono sempre più lontani, gli riporta il salato conto.
Abbiamo approfittato dell’occasione per poter dialogare con Ulrich Seidl anche di alcune delle peculiarità della propria cifra stilistica e di alcune tematiche portanti della sua intera filmografia, come il rapporto tra l’uomo e la fede.
Il titolo di lavorazione di questo film è stato Böse Spiele, che se non sbaglio vuol dire “recita”, “messa in scena”, come mai il cambio di titolo?
Sì, confermo che il titolo originale fosse quello. Inizialmente il film doveva narrare la storia di due fratelli e del loro padre, in quanto il protagonista ha un fratello minore che si vede a inizio film. Venne girato con questo plot. Solo in sala montaggio poi decisi di farne due film e il primo dei due narra di Richie Bravo ed è Rimini.
La co-protagonista del film è indubbiamente la Rimini del titolo, c’è stata fin da subito l’idea la faccia più decadente di un luogo così inserito nell’immaginario nazionale, anche cinematografico (Fellini)?
In effetti, anche se non c’entra con questo lavoro, è vero che abbiamo tutti in mente Fellini se pensiamo alla città di Rimini. Lo possiamo chiamare un piccolo effetto collaterale, che vi sia questa percezione vedendo il mio film. Semplicemente la Rimini invernale per noi tedeschi non è decadente, è semplicemente un’altra faccia di questa città. Piuttosto, potremmo chiamare decadente questa visione di centinaia di persone seminude sotto gli ombrelloni in spiaggia, appiccicate tra loro. Le preferisco decisamente la Rimini avvolta dalla nebbia.
Come in molti suoi film, anche in Rimini gli interni (della villa di Richie Bravo quanto degli edifici in cui si esibisce) hanno un ruolo essenziale, quanto sono utili per raccontare i personaggi e la società di cui fanno parte?
Per la narrazione filmica tutto è importante, non solo il discorso interni/esterni. Tutte le scene implicano scelte decise di location, luce e palette cromatica, in modo tale che ogni aspetto del comparto estetico sia in armonia con quello che voglio raccontare. I miei film sono un racconto visivo, è molto importante per me il linguaggio immaginifico.
Nei film di Ulrich Seidl spesso c’è un personaggio, un singolo, per raccontare una condizione umana universale. Quanto ha Richie Bravo da spartire con l’uomo contemporaneo?
La narrazione pone al centro questa singola figura, ma non credo si possa parlare di un uomo capace di descrivere totalmente l’uomo contemporaneo. Esistono uomini diversi, molto differenti. Per esempio i figli di Richie Bravo sono persone completamente diverse, così come suo padre. Possiamo dire che la figura del protagonista rappresenta e incarna la generazione di cui fa parte. Certamente è un uomo che non c’entra nulla con il politicamente corretto.
Nella sua villa Richie Bravo è circondato di vecchi poster che lo raffigurano, appiccicati su ogni parete; secondo lei tutto questo c’è dietro un culto della propria immagine da parte del personaggio o una volontà di rievocare un passato ormai irrecuperabile?
Gli attori, come i cantanti, conoscono bene la vanità e l’egomania. Ciò si riflette anche in lui stesso. Tutta la villa è un riflesso in cui Richie Bravo si ritrova continuamente a rispecchiarsi. Confermo che è proprio così. Lui ama vedersi, come ogni animale da palcoscenico che si rispetti.
In Paradise Faith (2012) viene mostrata la deriva estrema dell’iconoclastia nella religione cristiana; quanto secondo lei, come nel secondo capitolo della sua trilogia, l’amore verso l’icona può sfociare nell’attrazione fisica dell’immagine di Cristo?
Tutte le religioni riconoscono l’oggettificazione, trasformare un’idea in un oggetto o un’immagine. Per questo motivo vi sono tanti altari e innumerevoli persone si inginocchiano davanti alle chiese o alle statue in preghiera. I simboli, così come nella religione cristiana, sono presenti anche nelle così dette “religioni naturali”. Nel mio film si arriva a un atto sessuale con l’oggetto della fede, ma esistono diverse derive di questa pratica anche fuori dall’ambito religioso. Per esempio chi si comporta con le bambole come se fossero dei bambini veri.
Nel suo documentario Jesus You Know (2003) i credenti di cui raccoglie le testimonianze guardano in macchina e proprio per questo sembra che stiano pregando la cinepresa, dato che il controcampo del crocifisso viene mostrato più rapidamente). Il cinema è sempre almeno in minima parte un artificio, anche quando si parla di documentario, proprio perché allo spettatore è richiesto di credere a ciò che viene rappresentato sullo schermo. Alla luce di questo, quanto secondo lei il cinema è assimilabile a una religione?
In Jesus You Know, le persone guardano appena sopra la macchina da presa, ma l’impressione è proprio quella che guardino negli occhi lo spettatore. Quello di cui mi importa, comunque, è la credibilità. Quando una figura è credibile, riesce a toccarmi e, inevitabilmente, la sento più vicina. La chiamo l’immediatezza. Il regista e lo spettatore sanno che si tratta di un film, di una rappresentazione della realtà. Che io lavori con attori professionisti o meno, è questa ricerca dell’immediatezza la chiave del tutto. Per rispondere al resto della sua domanda, posso dirle che sono cresciuto in una famiglia fortemente cattolica. I miei genitori andavano sempre in chiesa, mentre io andavo sempre al cinema. Possiamo anche dire che il cinema si tratti di una sublimazione della fede, in quanto essa può essere di conforto e consolazione nei momenti di dolore. Il cinema può portarci a sognare altri mondi oppure farci scoprire nuovi orizzonti. Forse non direi che cinema e religione siano paragonabili, ma sicuramente un film può dare consolazione e speranza alle persone.
Nella foto in alto: Michael Thomas in ‘Rimini’ di Ulrich Seidl
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