MOUNT KIMBIE – SUONIAMO CON CHI AMIAMO
Il duo post dubstep londinese è tornato, dopo una pausa lunga quattro anni, con Love What Survives, in cui cantano King Krule, James Blake e Micachu
di Carlotta Sisti
Non è a chi ama le semplificazioni, questo è certo, che si rivolgono i Mount Kimbie quando scrivono un album. Love What Survives, che esce l’8 settembre per Warp Records, è un lavoro per il quale vale la pena faticare un po’, scoprendo brano dopo brano tutta la sua genuina complessità. Proprio come quattro anni fa succedeva con Cold Spring Fault Less Youth, stupefacente disco di debutto del duo londinese che, nell’impossibilità di essere catalogato in un genere già esistente, è stato insignito della de nizione, azzeccata, di post dubstep. Ma se c’è un talento di cui certamente abbondano Kai Campos e Dom Maker, quello è invischiare chi ascolta in una sorta di narrazione dai passaggi talvolta oscuri, talvolta liberatori, ma che non molla mai – proprio mai – la presa, tanto che quando si arriva alle ultime note, ci si accorge che si stava quasi trattenendo il ato per tutto il tempo passato all’ascolto.
Dom, partiamo dal titolo: che idea c’è dietro quel Love What Survives?
Lo ha ispirato soprattutto il cambiamento, o meglio i cambiamenti che sono avvenuti nelle nostre vite negli ultimi anni. Molte cose sono diverse, oggi, rispetto a quando abbiamo iniziato a fare musica. Siamo diventati grandi e siamo, diciamo, “invecchiati”, eppure proprio il voler fare musica insieme sotto il nome di Mount Kimbie – io, Kai e i collaboratori che ci accompagnano ogni volta – è rimasta una costante nelle nostre vite.
Ti spaventa diventare grande?
No, non direi che mi spaventa, però inizio a notare i primi segni di cedimento e quelli scocciano. Per esempio, io da qualche anno vivo a Los Angeles, ma devo viaggiare di continuo perché il nostro studio di registrazione è a Londra, e se prima il jet lag non lo sentivo, adesso mi spezza le gambe.
E che cosa fai per sconfiggerlo?
Resto in piedi, tanto so che non riuscirei a dormire. Tengo botta cinque-sei ore e mi rendo più attivo possibile, no a che non avverto che sta per arrivare lo schianto e solo allora vado a letto.
A proposito di viaggi, avete appena concluso il tour americano e quest’autunno farete una data dietro l’altra in Europa: come vi preparate a questi impegni?
I tour ci caricano “a mille”. Ottobre e novembre, è vero, saranno due mesi di concerti senza sosta (il 18 novembre suoneranno al Circolo Magnolia di Milano, NdR), ma da quando ci presentiamo ai live con una band di quattro elementi è diventato tutto più leggero: dividendo il carico della performance non più solo tra me e Kai anche un tour super tosto come quello che stiamo per affrontare appare un po’ meno faticoso. E poi è fantastico poter viaggiare e vedere così tante città una dopo l’altra, anche se solo di sfuggita.
Come mai vi siete fermati per quattro anni?
Le energie erano terminate, proprio alla ne di un tour lunghissimo. Eravamo stan- chi e avevamo bisogno di stare con le nostre famiglie e con i nostri amici, perché stando in giro per così tanto avevamo proprio avvertito di aver perso il contatto con tutti loro. Non si può pensare di girare il mondo e allo stesso tempo riuscire a esserci per i propri cari: ci si sacri ca da ambo le parti per un po’, ma poi ci si deve ricongiungere. E così abbiamo fatto. Quella pausa è stata preziosa, anche perché ci ha fatto tornare voglia di fare nuova musica e di portarla in giro per il mondo.
In questo disco ci sono featuring fantastiche con King Krule, James Blake, Micachu: per voi è importante avere un feeling non solo musicale con i vostri collaboratori?
Al 100%, infatti sono tutti e tre dei carissimi amici. Certo, per noi devono esserci sia stima professionale e artistica sia stima personale per poter lavorare insieme a qualcuno, è un unico impasto indispensabile per la buona riuscita. Archy (Marshall aka King Krule, NdR) per esempio ha un’energia impressionante e una sensibilità stupenda. Il suo stile ha portato il pezzo Blue Train Lines in una direzione inaspettata, che io e Kai abbiamo amato al primo ascolto e che credo sia piaciuta molto anche al pubblico.
Dal vostro ultimo disco il mondo è parecchio cambiato, specie dal punto di vista politico: questo vi influenza in quanto artisti?
Sì, è naturale che quello che ci sta intorno si rifletta anche nel nostro lavoro. E quello che ci sta intorno, a mio avviso, in questo momento è soprattutto frustrazione, panico e incertezza. Come ho già detto io vivo a Los Angeles e Kai a Londra, ma entrambi abbiamo la stessa percezione e cioè che tra le persone serpeggi un senso di irrequietezza e di rimpianto. Non è un gran momento, ecco.
Parlando di cose più divertenti, a marzo avete suonato su un treno in corsa: com’è andata?
Ovviamente è stato assurdo e molto divertente, anche perché ci hanno chiesto non solo di suonare, ma di realizzare una vera e propria traccia live inedita, e tutto mentre quel treno schizzava verso Varsavia. Molto co, a parte la difficoltà a mantenere l’equilibrio ed evitare di schiantarsi per terra.
È stato il posto più strano dove i Mount Kimbie abbiano mai suonato?
Sì, penso di sì. Abbiamo suonato anche in una chiesa in Norvegia, e anche quello è stato un luogo piuttosto bizzarro in cui fare un concerto, ma credo che il treno in corsa lo batta.
Forse la prossima volta potreste farlo su un aereo…
Dici che così sentirei meno il jet lag? Sì è un’idea, direi che si può tentare.
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