ESPRESSO SPECIAL(TY)
Il futuro del caffè potrebbe non essere la nota catena dal cammeo verde. A farle concorrenza c’è il grande ritorno della tazzina espresso, ma in vesti speciali. Lo specialty coffee presenta il più amato dagli italiani sotto una luce nuova, cercando di convincerli dopo averlo fatto con il resto del mondo
di Ida Papandrea
In medio stat espresso. Attorno, ruotano due galassie opposte. Da un lato, l’intero universo di frappuccino, mokaccino e tutto il mix a cui le catene di caffè internazionali ci hanno abituato: serviti in bicchieri formato magnum e accompagnati da latte, panna, topping, spezie e sciroppi vari. Difficili da accettare per lo zoccolo duro degli integralisti del caffè all’italiana maniera, ma visti come normali fuori dai nostri confini, talmente comuni nell’epoca della globalizzazione (e di Instagram) da essere diventati consuetudine anche per i nostri millennial.
Dall’altro lato, ecco palesarsi quella che viene definita la Third Wave, la terza onda culturale del caffè: dopo essere stata “prodotto di sopravvivenza” («senza caffè nemmeno mi sveglio»), dopo essersi “allungata” in formato XXL e globalizzata, oggi l’amata tazzina diventa come i vini pregiati: un prodotto da conoscere e degustare. Gli specialty coffee sono una sublimazione del classico espresso e la loro storia ha inizio, ironia della sorte, nei Paesi di tradizione anglosassone dove con caffè, per antonomasia, si intendono i celebri beveroni da coffee chain. Il nome è stato coniato dall’americana Erma Knutsen che, per la prima volta nel 1974, sentì il bisogno di distinguere un caffè artigianale da quello di produzione industriale.
Il concetto è semplice: la pianta del caffè conta diverse specie botaniche e le differenti provenienze geografiche di queste danno vita a chicchi con sapori e aromi differenti. In ballo entrano il clima, l’altura a cui le piante vengono coltivate e il terreno, fino ad arrivare ai metodi di raccolta e tostatura: tutte caratteristiche in grado di generare caffè di qualità, con gusti diversi e ben riconoscibili. Un prodotto da etichettare e salvaguardare secondo gli standard di un’associazione nata appositamente con questi scopi, la Specialty Coffee Association of America (SCAA) e il suo corrispettivo europeo SCAE (presente anche in Italia) che hanno stilato anche un protocollo di assaggio attraverso il quale definire il punteggio dei diversi caffè nella scala della qualità.
Allora, perché solo adesso lo specialty coffee è diventato fenomeno pop? Dietro ci sono una cultura e un aspetto etico che vanno oltre la tazzina. «La sostenibilità, per cominciare: i chicchi vengono raccolti a mano, uno per uno. E questo, se da un lato ne garantisce l’integrità e l’eccellenza, dall’altro vuol dire assicurare lavoro e incentivare le attività delle piccole aziende che lo producono, nei Paesi da cui questi caffè provengono, oltre che un maggiore rispetto per l’ambiente: più il caffè cresce in un ambiente integro, più aumenta la qualità», dice Vincenzo Fioretto che nella “specialty coffee philosophy” ci crede, al punto da aver mandato all’aria una carriera ventennale per lanciarsi in questa avventura. Nato nella patria del caffè, è il proprietario del primo specialty coffee bar di Napoli, il Venti Metri Quadri. Ha cavalcato la terza onda grazie a una ragazza australiana che gli ha fatto un regalo: i Caffè Artigianali di Francesco Sanapo di Firenze, uno dei pionieri italiani del genere. «Avevo appena deciso di cambiare direzione e aprire un locale e a quel punto mi era anche chiaro che genere di locale volevo».
Eppure, al primo impatto, gli specialty possono non impressionare positivamente. Il primo sorso, spiega Fioretto, sprigiona sempre note acidule. Se si supera questa fase iniziale – necessaria, spiega, per preparare il palato ad assaporare le note seguenti – il resto sorprenderà. «A seconda del luogo di provenienza, che siano monorigine o una miscela di diverse qualità, questi caffè sono in grado di cambiare completamente sapore». I chicchi provenienti dall’Africa, per esempio, hanno note più floreali o fruttate, quelli dall’America Latina decisamente più vicine all’aroma del caramello o del cioccolato. Non è un caffè da prendere al volo, ma da assaporare lentamente e senza aggiunta di zucchero. In cambio, in bocca lascerà un gusto persistente e gradevole.
«Il classico espresso tende invece a diventare amaro, quando non bruciato, al palato, cosa che porta a creare senso di sete». Molto può dipendere anche dalle apparecchiature e per lo specialty coffee si seguono norme di preparazione rigorose. Pressione e temperatura devono essere costanti per non alterare gli aromi; la caldaia in acciaio chirurgico, che non perda metalli pesanti nella bevanda. A tutto vantaggio del gusto e anche della salute. Anche perché gli specialty hanno una più bassa concentrazione di caffeina, che «viene prodotta dalla pianta per difendersi dai parassiti. Più cresce in un ecosistema salubre, meno la pianta ha bisogno di rilasciarne ai suoi frutti». Proprio come i vini d’annata, ci si mette un po’ a scegliere: se ne provano diversi, abituando il palato a distinguere tra i differenti pro li aromatici. Come per il vino, anche qui ci sono i sommelier.
Per comprendere il fenomeno non c’è bisogno di leggere i fondi del caffè: bisogna guardare al di là della tazza. Lo specialty coffee elimina il concetto di fretta. Non si deve buttare giù con un sorso veloce, di quelli che ti bruciano le labbra prima e ti lasciano l’amaro in bocca, poi. Va degustato, assaporato, percepito, compreso. Serve una pausa vera, cinque minuti e staccare la spina. Eticamente ineccepibile, ecologicamente corretto, qualitativamente superiore, psicologicamente stabilizzante. Non è forse tutto ciò di cui la nostra epoca ha bisogno?
Dello stesso autore
Ida Papandrea
CONTENTS | 12 Gennaio 2021
VIENI, TI PORTO FUORI A PRANZO
EVENTS | 23 Luglio 2018
TONES OF THE STONES, LA FEBBRE DELL’ORO CON L’ORCHESTRA DI HELMUT IMIG
EVENTS | 21 Giugno 2018
NEXTONES XPERIENCE: LO ZIPLINE
EVENTS | 11 Maggio 2018
TONES ON THE STONES 2018
CONTENTS | 11 Settembre 2017
BLACK IS THE NEW BLACK