ÁSGEIR – INTO THE WILD
ra le cose che ama ci sono la musica, l’Islanda e la famiglia; tra quelle che non ama i viaggi e, no a pochi anni fa, i grandi palchi. Ma anche a quelli, come a un successo che non si aspettava, si è dovuto abituare. Il ragazzo d’oro della musica islandese torna con un disco potente come la natura che lo ha ispirato
di Carlotta Sisti
Ásgeir, all’anagrafe Ásgeir Trausti Einarsson, nato e cresciuto a Laugarbakki, una manciata di case e 57 abitanti immersi nella tundra islandese, crede nel fattore “i” inteso come Islanda. Lui che a nemmeno 25 anni pubblicherà il 5 maggio per One Little Indian Afterglow, il suo terzo album in studio, si sente al 100% glio del suo Paese. Perché, racconta con quell’inglese dalle “r” dure tipico dei nord europei, «all’Islanda devo l’ispirazione, ma anche una naturale predisposizione ad avere tanta luce e tanto buio dentro di me». Un’altalena di serenità e malinconia che appartiene anche a questo disco electro-folk, segnato dall’impronta di gente come Jonsi e James Blake, ma che di fresco ha quell’andatura un po’ sghemba di chi non si sente ancora del tutto sicuro di se stesso, e forse mai vorrà esserlo.
Ásgeir, (la pronuncia corretta è impraticabile, almeno per me) quanto è difficile far conoscere la propria musica se si nasce in un posto così piccolo e sperduto?
Molto, ma non tanto per la ragione che dici tu, quanto piuttosto per il fatto che qui in Islanda è difficile emergere perché sono tutti musicisti! Si impara a suonare a scuola a 5-6 anni e questa confidenza con gli strumenti di ogni tipo fa sì che, poi, molti ragazzi puntino a fare della musica la propria professione. Quindi, anche se non si direbbe, da queste parti c’è parecchia concorrenza e la qualità è spesso alta.
Si sente spesso dire che la natura che vi circonda vi ispira profondamente: è vero o è solamente un luogo comune?
Per me è vero. Capisco che possa suonare bizzarro, ma se nasci e cresci qui è quasi inevitabile sentire la natura come parte irrinunciabile di te stesso. In tutti i miei dischi, dal primo più acustico (intitolato non a caso In the Silence) a questo molto più elettronico, non tanto i paesaggi quanto la forza e l’atmosfera magica dell’Islanda sono presenti e protagonisti. Anzi, mi chiedo come potrebbero non esserlo.
Anche in Afterglow hai usato, come nei precedenti lavori, le poesie di tuo padre Einar Georg per i testi dei brani?
Sì, e non solo: con i miei fratelli Thorsteinn, Julius Robertsson e Hogni ho scritto e suonato la musica, quindi posso dire senza dubbio che questo album è stato un lavoro di famiglia.
I legami con l’Islanda, quelli con la famiglia: com’è stato trovarsi ad avere successo e a dover girare il mondo?
Parecchio strano e non semplicissimo. Prima di In the Silence (che nel 2012 ha battuto i record di vendite di Bjork e Sigur Ros, NdR) non avevo praticamente mai viaggiato, se non per brevi gite in Svezia e Danimarca, e devo dire che non è che mi elettrizzasse granché l’idea di farlo: lo so, suona noioso, ma a me piace stare qui mentre i viaggi mi snervano parecchio. E invece, di punto in bianco, mi sono trovato a dover prendere aerei per gli Stati Uniti, per il Giappone e a suonare in location sempre più grandi… Beh, è stato un mezzo shock! All’inizio non mi sentivo affatto pronto, ero spaventato, lottavo contro la timidezza, ma mi sentivo sopraffatto. Poi mio padre mi ha detto una cosa semplice e saggia: «Non prendere tutto questo troppo sul serio, non si tratta di vita o di morte ma solo di musica». E così ho imparato a sdrammatizzare.
Quindi di questo parla Afterglow? Del non prendersi troppo sul serio?
Esatto. Ma anche di amore per la famiglia, per una ragazza, per la natura. E per la musica stessa.
Quando vuole prendersi una pausa dalla musica che cosa ama fare Ásgeir?
Correre, soprattutto. Ogni tanto dipingo.
Lasciami indovinare: paesaggi?
Sì, anche. Sono ripetitivo, lo ammetto. Però sei mai stata in Islanda?
Una volta e solo a Reykjavik.
Beh, allora devi tornare e vedere tutto il resto, così senza dubbio capirai perché non c’è modo di togliersi dagli occhi e dall’anima quello che abbiamo qui. Fidati, è davvero potente.
Mi fido, ma ora toglimi una curiosità: andate ancora pazzi per quel super alcolico allucinante chiamato Black Death?
(Ride, NdR) Beh certo, esiste solo qui, anche quello è motivo di orgoglio! Anche il Black Death è figlio della natura, perché nella ricetta ci sono alcune erbe che crescono solo in una terra folle e magica come la nostra.
Hai diversi tatuaggi, ma in particolare mostri spesso quello che hai sul petto, vicino al cuore: che cosa significa?
Il disegno rappresenta un teschio dalla cui bocca esce il simbolo del silenzio e l’ho fatto nel 2014, quando la mia vita è cambiata radicalmente: sono uscito da una relazione e al contempo ho iniziato ad avere successo. Un binomio complicato da gestire. Quel tatuaggio mi ricorda quel momento cruciale, ma soprattutto di non dimenticare che posso gestire anche le cose più difficili.
Intervista pubblicata su WU 77 (aprile 2017). Segui Carlotta su Facebook
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