TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI, UNA LEZIONE SULLA REDENZIONE
Con sette candidature agli Oscar e numerosi premi già vinti, Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, ci costringe a uscire dalla visione binaria con cui osserviamo la vita dalla nostra presunta superiorità
di Gaetano Moraca
Ci è voluta una settimana per far sedimentare Tre manifesti a Ebbing, Missouri nella mia testa. In sala, durante la prima parte pensavo: «ecco un bel film», poi le risate alle facile battute di Dixon mi hanno inconsciamente infastidito e piano piano ho cominciato a pensare «troppe macchiette». Alla fine sono rimasto incastrato nella mia poltrona, scisso tra la volontà di sbottare «tutto qua?» e «che figata!».
Il film di Martin McDonagh che, candidato tra l’altro agli Oscar come miglior film, ha già fatto incetta di premi a Venezia (sceneggiatura), ai Golden Globe (tra cui miglior sceneggiatura e miglior film drammatico) e ai SAG Awards, possiede davvero una scrittura intensa. La magnifica e algida Frances McDormand è Mildred, una leonessa ferita due volte: per la perdita della propria figlia, stuprata e poi uccisa, e per l’impunità del crimine. Affigge così tre enormi manifesti rossi lungo la strada dove il corpo della ragazzina è stato rinvenuto nei quali accusa apertamente la polizia locale, nella persona dello sceriffo, di non star facendo abbastanza per risolvere il caso. Gli abitanti di Ebbing, fino a quel momento uniti intorno al dolore di Mildred, reputano ingiusta quella mossa nei confronti dello sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson) che pare stia per morire di cancro. Quest’ultimo, ironico, responsabile, portatore di umanità (forse per via delle sue condizioni di salute), è seriamente addolorato per lo stallo in cui versano le indagini. Tra i suoi uomini spicca l’agente Jason Dixon (Sam Rockwell), alcolizzato, violento (specie contro i neri), per niente brillante, che vive sotto la gonna della madre, dalle cui labbra pende, nonostante si nasconda dietro la corazza del macho.
Quei tre manifesti danno il la a un’ascesa di violenza che investirà gli abitanti di quella landa desolata del Midwest. McDonagh con pennellate vivide scrive dei personaggi del tutto politically incorrect. Mildred e Dixon se ne fottono di ciò che è giusto fare e si comportano di conseguenza. Anche lo sceriffo, seppur più pacato, si mostra tutt’altro che buonista: quando per esempio gli viene chiesto perché non licenzia un soggetto pericoloso come Dixon risponde: «Se dovessi licenziare tutti i poliziotti che odiano i negri me ne rimarrebbero solo tre, che odiano i gay». I manifesti sono l’occasione per scoperchiare il volto di un’America razzista, omofoba, sessista, ferita e spietata. È quella America periferica, che con poca frequenza entra nei talk show o nelle serie tv e che ha votato in massa per Trump (il Missouri ha regalato al tycoon il 56,8% delle preferenze). Gli abitanti di Ebbing assomigliano molto a quelli del Kentucky raccontati da Chris Offutt nei racconti di Nelle terre di nessuno.
Evidentemente per questo in sala mi sono sentito a disagio per le grasse risate dei miei vicini alle battute omofobe o razziste di Dixon, io con i miei preconcetti e la superbia di essere seduto nella poltrona giusta della storia. E lì per lì ero curioso e desideroso di vedere con quanta coerenza McDonagh portasse avanti quei profili così sprezzantemente “trumpiani”. E invece poi, verso la fine, succede qualcosa che mi destabilizza ancora una volta: quei personaggi mostrano un barlume di redenzione, tanto che da estremamente politically incorrect sembra che il film cambi orizzonte. Quasi come se il regista si sia reso conto di aver esagerato. «Beh, tutto qui?», mi ripetevo. Ma poi, a mente fredda, ho avuto come un’intuizione: e se McDonagh con Tre manifesti a Ebbing, Missouri stesse irridendo tutte le categorizzazione mentali in cui ci costringiamo (buoni e cattivi, bianchi e neri, etero e gay, destra e sinistra, si può dire vs meglio dire in un altro modo) per dimostrarci che tutta questa violenza, anche psicologica, non fa bene a nessuno? Così, ridendo alle nostre spalle, ci regala una bella lezione: non solo i migliori possono sbagliare, ma che anche i peggiori sono in grado di fare bene, alla fine.
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