FRANCESCO PACIFICO – CON L’ORECCHIO SUL TERRENO
Esce per Rizzoli Le Donne Amate, il quarto romanzo dello scrittore romano, tra classe disagiata e movimento #metoo: una storia sui rapporti tra uomo e donna e sul modo giusto di raccontarli, sullo sfondo di una borghesia creativa mai così velleitaria
di Federico Sardo
Francesco Pacifico si definisce «uno scrittore prestato al giornalismo», e per lui sono importanti innanzitutto lo stile e il ritmo della pagina. Ma le sue storie riescono sempre a cogliere appieno lo spirito del tempo, e se con Class (2014, poi tra i libri dell’anno del “The New York Times” nella sua edizione americana del 2017) anticipava alcune tematiche poi esplose nel dibattito sulla cosiddetta classe disagiata, ora torna con un romanzo (Le Donne Amate, Rizzoli) che parla del rapporto tra uomini e donne, e di come questi rapporti si possono raccontare. Ne abbiamo parlato con lui.
Il libro non è autobiografico, ma parla di un ambiente che è indiscutibilmente il tuo, e la citazione di Virginia Woolf in esergo sembra molto significativa da questo punto di vista. Sembra che tu abbia messo in atto un complesso gioco di specchi nell’invenzione di questa storia, è un’impressione giusta?
Gioco di specchi è l’impressione giusta. Scrivere un romanzo è un po’ come giocare un solitario a carte. Devi almeno mischiarle se no lo controlli ed è noioso. Io mischio le carte spostando degli elementi autobiografici, stravolgendoli in modo che rapporti che mi sono noti rivelino degli aspetti nascosti. Cambio il sesso di una persona che amo. Ti faccio un esempio su un racconto che scrissi tre anni fa mentre ero in viaggio di nozze: raccontai il viaggio di nozze con mia moglie trasformando me in una donna, per vedere cosa sembravano le nostre interazioni se trasformate in quel senso. Credo di fare sempre autobiografia stravolta. Quando suonavo, mi piaceva registrare le melodie al contrario come faceva la vecchia psichedelia perché erano sempre meglio delle mie melodie. Così, prendo le solite cose e le suono al contrario.
Nel libro ci sono anche molte parti metanarrative, in cui il narratore e protagonista, che è uno scrittore, riflette sul modo più efficace di trattare certe parti, e svela quelli che potremmo considerare veri e propri retroscena della stesura, come si trattasse di un manoscritto per l’editore. Come mai hai optato per questa scelta?
Volevo giocare con un tipo di letteratura che mi piace ma che non è mai al centro dei miei pensieri: una letteratura che definirei adelphiana visto che mi vengono come esempi Fuoco pallido di Nabokov e Finzioni di Borges, entrambi Adelphi. In realtà però la prima mezza stesura del libro non era così, voleva essere un omaggio alla letteratura giapponese del novecento, Soseki, Kawabata… Ma poi mi sono reso conto che per scrivere delle donne dovevo farmi smontare il manoscritto da chi leggendolo lo trovava impreciso. Le critiche che ricevevo mi piacevano molto, mi ferivano, mi stimolavano, mi facevano vedere con più chiarezza, così ho deciso sostanzialmente di lasciarle dentro al libro. Il libro parla di un cambio di paradigma: le donne esistono indipendentemente dagli uomini, non al loro servizio, non in loro funzione (dannatrici o salvatrici). Per raccontare un cambio di paradigma morale mi sembra importante usare dei trucchi narrativi che invece di nascondere sottolineino lo spaesamento morale e cognitivo che ci prende durante i grandi cambiamenti.
Quando hai cominciato a lavorare al libro? credo sicuramente ben prima dell’esplosione del caso Weinstein e poi di #metoo, eppure in questo senso sembra cogliere appieno lo spirito del tempo, essendo in sostanza un libro basato sul rapporto di un uomo con le donne e con il modo di raccontarle. Inoltre, con mia sorpresa, verso il finale del libro quel movimento viene proprio citato esplicitamente: ha avuto un’influenza diretta sul lavoro?
La cosa assurda è che il motivo per cui ho scritto questo libro ha a che vedere con la mia scoperta, negli ultimi anni, delle violenze subite da donne che conosco sul lavoro, e dalla posizione di subordinazione in cui si trovano. Questa urgenza di scriverne (anche in Class c’è una violenza e molti soprusi sul lavoro e in famiglia) si è combinata qui con un fatto pratico: visto che Class in Italia era andato male, non mi andava di metterci un secolo a scrivere un nuovo romanzo, ero frustrato, incazzato (menomale che poi altrove è andato meglio o non mi sarei mai ripreso), allora ho chiesto a mia moglie di mantenermi per un anno (quell’anno ho solo scritto per “IL”, per conservare un fisso mensile). Quindi i ragionamenti con le donne sul patriarcato, quelli che poi storicamente forse portano al metoo e tutto il resto, si sono combinati con la mia esperienza di farmi mantenere, un’esperienza straniante e sensuale che ho subito avuto voglia di mettere al centro del libro che stavo cominciando a scrivere. Quanto al finale, ho chiuso il libro durante l’esplosione del metoo e non ho potuto non aggiungere una frase per dire: ehi, già si sentiva che stava per succedere, visto che un anno fa io parlavo di questo. Anche Veronica Raimo ha scritto di cose simili negli ultimi anni. Il suo romanzo esce tra poco, anche lei ha sentito arrivare questa cosa. I romanzieri, incapaci di teorizzare, tengono l’orecchio sul terreno per sentir arrivare il treno.
Non lo definirei un libro erotico, però – come un po’ in tutte le tue opere – il sesso viene raccontato, e anche in maniera abbastanza precisa. Come approcci questo tipo di scene, solitamente considerate abbastanza “difficili”? Ci sono dei modelli espliciti che hai preso a esempio?
Su questo devo dire che la mia mente è ancora adolescente, e come narratore odio le scene convenzionali. Ho un’idea chiara di come nasce il desiderio in me e mi impegno a raccontarlo. Non ragiono per “ossessioni” o “perversioni” e tutte le parole ormai fruste che usiamo per il desiderio. Ragiono per oggetti e triangoli e pensieri e ho come unico indicatore e riferimento quella specie di languore che un attimo prima non c’è e un attimo dopo è dominante. Adoro il Decameron, quello forse è il vero modello.
Nonostante il riassunto banale ti abbia sempre incasellato in altre categorie, nei tuoi libri è sempre stato molto presente il tema della religione. Anche lo stesso Class, che pure è stato (giustamente) visto come racconto di una certa borghesia e delle sue velleità creative, era un libro in cui la religiosità era estremamente presente nella caratterizzazione di almeno uno dei personaggi principali. Questa forse è la prima volta in cui, tranne un po’ nell’ultimo capitolo quell’elemento non compare. Cosa c’è dietro questo cambiamento? Interessa meno anche a te? Pensi di avere detto tutto al riguardo?
Mi fa piacere che ne parli. La religione è uno dei colori fondamentali della mia esperienza del mondo, e uno degli elementi più bizzarri della borghesia, mio oggetto di contemplazione da sempre. Nei miei libri ci sono sempre le seguenti cose: viaggi, status, religione, ideologia, desiderio. La religione non mi interessa meno di prima, ma ho notato che tende a mangiarsi gli altri argomenti, se messa in un mio libro. Tanto che del personaggio cattolico di Class ho dovuto fare un diavolo perché rimanesse confinato nel suo regno di follia e manipolazione e non si mangiasse tutto il libro. Qui ho preferito lasciare la religione al personaggio più dolce di tutto il romanzo, che è mia madre. Inserita nella sua biografia, la religione si riprende un po’ di quelle sfoglie d’oro che di solito nelle narrazioni contemporanee – certamente nelle mie – non ha. Insomma diciamo che in mia madre la fede è qualcosa di misterioso che non toglie ma aggiunge.
Questo è stato sicuramente anche l’anno dell’uscita di Teoria della classe disagiata, che approfondisce da un punto di vista saggistico quelle che sono state anche tue tematiche. I protagonisti di questo libro sembrano quasi tutti lavorare per hobby, prima o poi tutti perdono il lavoro ma la cosa non sembra preoccuparli più di tanto, a volte l’impressione è quella che stiano meglio potendosi dedicare a altro. Il lavoro è quasi una questione soltanto di status (significativa la parte in cui il protagonista dice a un editore «fammi direttore editoriale, lavoro gratis, non mi paghi, ma dev’esserci scritto che sono il direttore editoriale»). Che impressione ti ha fatto il libro di Ventura e come lo metteresti in relazione con i tuoi personaggi?
Class, il titolo, mi venne nel gennaio del 2011. Amo quel che ha fatto RAV e credo mi abbia aiutato negli anni seguenti. Quando iniziai Class il tema era molto bistrattato. Un grande quotidiano disse al mio ufficio stampa: il tema delle classi sociali non ci interessa molto. Essendo un devoto della grande letteratura lievitata fino a compiersi nel modernismo ho sempre sofferto per quanto il tema – un caposaldo del romanzo europeo, che è comico e ridicolo anche se chi non legge i grandi libri di quell’epoca se lo scorda sempre (Pynchon e Fielding quanto sono vicini! È la letteratura seriosa e sentimentale la vera eccezione) – sia stato nascosto nella nostra letteratura. Ora finalmente, anche grazie a RAV, se ne può parlare come di una cosa quasi ovvia. Le crisi di identità della borghesia sono un tale spasso che più si sdogana il tema meglio mi sento.
Leggendoti noto un’attenzione assoluta ai piccoli dettagli, non tanto nelle descrizioni di paesaggi o di ambienti, ma dettagli del comportamento: il modo in cui un personaggio compie un gesto, i suoi piccoli cambi di umore, il perché decide di alzarsi da una poltrona o di accomodarsi sul letto, quali sensazioni prova mentre lo fa. È qualcosa che non saprei bene neanche come definire, è una cosa quasi scientifica, addirittura medica. Come se il narratore stesse nell’animo del personaggio e lo osservasse al micriscopio. Immagino sia una scelta precisa e un effetto assolutamente ricercato, come riesci a metterlo in pratica in modo così preciso?
Io vorrei che ogni frase fosse personale. Una volta un collega mi ha detto che nei miei libri non ci sono frasi che “portano le borracce”. Sì, cazzo, sì! Nessuna porta le borracce, sono tutte frasi che si sentono al centro del libro. Voglio che sia così. Non voglio confondermi con le chiacchiere, per le chiacchiere c’è Netflix, c’è Facebook. Per questo libro ho avuto la fortuna di farmi fare le pulci, tra gli altri, da uno dei miei scrittori italiani preferiti. Mi ha presentato il manoscritto editato con delle righe sopra le parole e le frasi che non erano degne di quel che volevo fare con questo libro. È l’unico modo per trattare la letteratura. Non dico che ci sia un’oggettività, e quello che scrivo non deve piacere per forza; ma, rispetto a quel che voglio raccontare, alla mia immaginazione, certe frasi depositano bene la sostanza e certe altre no. Cerco il più possibile di eliminare quelle che non riescono.
Dopo avere speso molto tempo e molte pagine su queste tematiche, pensi di avere capito qualcosa di più sui rapporti tra uomini e donne, o anche soltanto sul modo giusto di raccontarli?
Una delle cose più assurde che mi hanno detto le lettrici delle prime stesure è: «Ma perché quello stronzo alla fine di tutto casca in piedi?». È stato sconvolgente: non mi ero mai reso conto di come le donne a pelle sentano il privilegio di certi uomini. Diciamo che neanche mi ero mai accorto del privilegio in sé. Ho risposto: «Non lo so. Noi caschiamo in piedi. È vero». Volevo riuscire a inserire una scoperta così orrenda dentro un romanzo senza inserire punizioni che nella realtà non si danno. È un’operazione difficile. Ecco diciamo che ho capito tutte cose di questo tipo. Ti faccio un esempio forse collegato: qualche settimana fa una giornalista americana che conosco e stimo ha postato una cosa molto bella. Le ho scritto che quello che scrive mi piace molto. Lei ha visualizzato e non mi ha risposto. Allora mi sono chiesto: ma quindi prima mi rispondeva perché si sentiva in dovere di farlo per qualche ragione e invece adesso, boh, dopo metoo non si sente più di dover fare pubbliche relazioni con me? Non dico che ho la risposta a questa domanda, ma prima di questi mesi non mi sarei mai e poi mai posto il problema, avrei solo pensato: sta stronza… Invece stavolta mi sono detto: oh, forse le mie mail complimentose non fanno sempre piacere!
Intervista pubblicata su WU 86 (marzo 2018). La foto in apertura è di Musacchio & Iannello. Segui Federico su Facebook
Dello stesso autore
Federico Sardo
CONTENTS | 10 Marzo 2022
SEMPRE CALDA, MA NEL WEB
INTERVIEWS | 11 Ottobre 2017
MOGWAI – ANCORA IN PISTA