IACOPO BARISON – ALLA RICERCA DEL SUCCESSO
Nel suo secondo libro ‘Le stelle cadranno tutte insieme’, Iacopo Barison prova a raccontare le dinamiche della generazione millennial. Nel frattempo un suo racconto ha conquistato Dave Eggers e dal suo primo libro Daniele Ciprì trarrà un film
di Gaetano Moraca
Si è laureato al DAMS con una tesi su Nanni Moretti e dal giorno seguente si è messo a scrivere, pubblicando dopo un anno Stalin + Bianca per Tunué. Aveva capito di volere fare lo scrittore già a 18 anni, leggendo Wallace, Ellis, Palahniuk, De Lillo e poi i classici che aveva odiato a scuola. «Anch’io voglio avere il potere di fare stare bene o male le persone con le parole». Lo scorso dicembre un suo racconto è stato pubblicato per “McSweeney’s”, la rivista letteraria di Dave Eggers, ed è piaciuto a Jovanotti che gliene ha chiesto un altro per la sua rivista “SBAM!”. Il suo secondo libro Le stelle cadranno tutte insieme è uscito a marzo per Fandango. Incontro Iacopo Barison, 29 anni, in un posto che fa cocktail creativi nel quartiere Isola di Milano, anche se lui è astemio. Mentre ordina un’acqua tonica gli chiedo se ha scelto di vivere in questa zona perché affascinato dalla sua gentrificazione (ormai per indicare un quartiere popolare che diventa di tendenza bisogna dire così, facciamocene una ragione) o perché artisti, scrittori e aspiranti tali sono obbligati a eleggerla come domicilio. Ride e mi confessa di aver trovato un bilocale a un ottimo prezzo. Faccio finta di dargli credito, mentre noto il suono aperto della sua “O”, alla torinese.
Il tuo secondo libro sta facendo molto parlare di sé anche perché tu ti spendi tantissimo, in prima persona, per la sua promozione. Sai che questo fa un po’ storcere il naso ai puristi dell’ambiente?
Questo libro mi è costato un anno intero di fatica, è normale che voglia portarlo in giro il più possibile, sento la responsabilità di tenerlo vivo. L’autopromozione è vista male solo in Italia perché è come se si volesse rubare il posto a qualcuno. Quando ho proposto il mio racconto in America a «McSweeney’s» sono rimasti colpiti dal mio entusiasmo e poi lo hanno voluto perché gli è piaciuto, anche se per loro ero uno sconosciuto. Su quella rivista non ci pubblicano proprio degli idioti. Per promuovere Le stelle ho contattato solo persone e realtà con cui mi sarebbe piaciuto collaborare e quasi tutti hanno accolto volentieri il mio invito, quindi non è che sia considerato così scandaloso.
Il risvolto della copertina recita “il primo ritratto veramente lucido della generazione millennial”: non è un po’ presuntuoso?
Più che presuntuoso direi azzardato, perché raccontare una generazione in cui rientrano i nati tra il 1984 e il 1999 non è facile. L’editore ha avuto subito chiaro che raccontando me stesso ero riuscito a parlare dei miei coetanei. Io solo quando mi sono arrivate valanghe di messaggi di quanti si sono riconosciuti in quelle dinamiche. Descrivere una generazione alla fine significa raccontare l’acqua dell’acquario.
Che generazione è quella dei millennial?
Una generazione che ha perso ogni coordinata, schizofrenica a causa della iperesposizione tecnologica. Possiamo avere accesso a qualsiasi cosa, da quelle riprovevoli a quelle ottime, impensabile per i nostri genitori. Da questa assenza di punti di riferimento si può essere stimolati ma anche restare paralizzati.
Il tuo libro racconta di tre adolescenti, mezzi amici, mezzi amanti, che si trasferiscono in città per diventare famosi nel mondo del cinema. Nell’arco di dieci anni fanno i conti col diventare adulti, non sempre brillantemente. Che rapporto hai con i tuoi personaggi?
Ho un rapporto molto intimo con loro, gli voglio bene perché soffrono come noi. Secondo me chi soffre è più interessante perché ha avuto modo di guardarsi dentro più a fondo. Sono tre personaggi molto diversi tra loro, tutti e tre hanno alcuni elementi che mi appartengono ma nessuno mi rispecchia totalmente. Quando scrivo le ultime pagine del libro non vorrei concludere perché mi sembra di farli morire.
Alla fine più che un romanzo di formazione ne viene fuori un romanzo sull’accettazione del fallimento?
Dico sempre che sono riuscito a realizzare quasi tutti i sogni che avevo da ragazzino, per cui non so perché abbia scritto un libro sul fallimento. Forse perché ho capito che per essere equilibrati bisogna imparare a non voler controllare tutto della vita e ad accettare la possibilità di non riuscirci. Deve essere un esercizio quotidiano, forse è questa la morale del libro. Aria e Danny lo capiscono prima, il narratore solo alla fine, quando dice «Sono qui, sono vivo e il tempo è l’unica cosa che ho».
Come nel tuo, tra i libri contemporanei che parlano e sono scritti da millennial, il recente Parlarne tra amici di Sally Rooney per esempio (ma anche l’italiano Vita e morte delle aragoste di Nicola H. Cosentino), ho notato due tipizzazioni: una quasi totale incapacità dei protagonisti di affrontare i problemi e le relazioni umane e, spesso, un ricorso agli psicofarmaci che sconfina nel cliché. Questa rappresentazione è reale o è già un topos letterario?
Nel mio romanzo l’uso dello Xanax è confinato a due pagine e i protagonisti lo usano per gioco, non li condanno. Conosco molti coetanei che per noia hanno provato molto peggio. In parte hai ragione, può essere diventato un cliché letterario, seppur nei cliché uno ci s’inserisce ma poi cerca anche di rinnovarli. Parlarne tra amici che mi è stato presentato come il romanzo sui millennial non mi ha emozionato particolarmente. L’ho trovato, sì, stereotipato e un po’ piatto. Una che è riuscita a raccontare bene questa generazione è Lena Dunham con Girls, che si appoggia bene sui cliché.
Iacopo Barison è un millennial che ce l’ha fatta?
Adesso ti potrei rispondere in un modo e fra un’ora in un altro, e questo è molto millenial (ride, NdR). Ma la domanda è: che ce l’ha fatta a fare cosa? A essere felice, a realizzare i propri sogni, a pagare le bollette? Secondo me farcela significa essere equilibrato e ancora non sono riuscito a esserlo come vorrei, ammesso che sia possibile. Da ragazzino pensavo che se mai avessi pubblicato su «McSweeney’s» avrei potuto smettere di scrivere. Poi crescendo ti accorgi che ogni soddisfazione raggiunta non basta per essere la persona più felice del mondo, quindi capisci che la felicità bisogna cercarla in altre cose.
Ma poi questa provincia da cui sei scappato tu e da dove scappano i tuoi personaggi fa così schifo?
La provincia del mio libro è più uno stato d’animo che ti porti dietro anche quando vai nella grande città. Senti sempre quel peso, specie quando devi tornarci. È anche vero che crescere in un ambiente non troppo stimolante come la provincia può portarti a fare di più. I protagonisti de Le stelle non appena arrivano in città recitano un copione, cioè fanno esattamente quello che credono debba fare un abitante di città: mangiano muffin vegani anche se non sono vegani, stanno attenti alle tendenze, incarnano i cliché insomma.
Ultimi libri letti?
Oltre a Parlarne tra amici ho appena finito Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon. Adoro Bel Ami di Maupassant che mi ha ispirato per il romanzo. I libri che mi piacciono sono quelli che dicono qualcosa di nuovo sulla vita, sulla morte, sull’amore, sulla felicità, sulla tristezza, sugli esseri umani insomma. Che poi è il compito della letteratura.
Progetti futuri?
Ho appena letto il soggetto del film tratto dal mio primo libro che sarà girato da Daniele Ciprì, probabilmente nella primavera del 2019. L’ho trovato diverso ma bello ed è giusto che un regista come lui inserisca la sua poetica nel mio libro e ne faccia un’altra cosa. Poi vorrei uscire col mio prossimo libro a 32 anni, anche se non ho ancora idea di che cosa parlerà. Perché portare in giro un libro, a conti fatti, è più bello che scriverlo.
Intervista pubblicata su WU 90 (settembre 2018). Segui Gaetano su Facebook
La foto in apertura di Iacopo Barison è di Francesca Zanette
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