LELE SACCHI – CONFIDENZE DA DJ
Lele Sacchi ha scritto un libro, ‘Club Confidential’, per raccontare cosa vuol dire stare in consolle e di come la figura del dj è cambiata nel corso degli anni, acquisendo sempre più importanza in tutto il settore dell’entertainment. Lo abbiamo intervistato appena dopo la presentazione all’ultimo Club to Club
di Stefano Ampollini
Definire Lele Sacchi semplicemente un dj sarebbe riduttivo: classe 1975, volto televisivo, conduttore radiofonico e giornalista. Da oggi anche autore di Club Confidential (UTET Edizioni, 2018), libro in cui racconta la storia del clubbing e come è cambiata la professione del dj. Incontriamo Lele Sacchi all’Absolut Symposium di Torino durante Club to Club, appuntamento imperdibile per gli amanti della musica elettronica in Italia, che ha organizzato un incontro per presentare il libro.
Come definiresti la musica elettronica?
Per definizione la musica elettronica è il risultato di un processo creativo che produce suoni attraverso i sintetizzatori. Non sempre coincide con la club culture, quella per cui l’obiettivo è far ballare. C’è un filone techno le cui sonorità non ti fanno muovere neppure un muscolo. Non è il mio caso. Io suono per far ballare e, per fortuna, da un po’ di tempi ho smesso di essere uno “svuota-pista” (ride, NdR).
Com’è cambiato il mestiere del dj negli ultimi anni?
Fino all’avvento del digitale il dj lo potevi riconoscere perché girava per locali caricando in auto il proprio flight case pieno di vinili. Oggi non è più così. Il dj spesso è anche produttore ed è all’avanguardia nell’entertainment, ricercato dalle aziende per la capacità di creare e aggregare. Un po’ come per gli chef, anche il nostro lavoro oggi non è più soltanto dietro a una consolle. Per una cosa il dj non è cambiato: tranne rari casi il nostro resta un mestiere solitario, che ti porta a girare il mondo e incontrare migliaia di persone, ma in fondo ti lascia solo, un po’ come per i tennisti. Mi sono riconosciuto molto nel film Borg vs. McEnroe, anche se io non ho mai vinto il torneo di Wimbledon.
Non è un lavoro per tutti…
No, innanzitutto per lo stress fisico a cui andiamo incontro per lunghi periodi dell’anno e per l’equilibrio mentale necessario per sopportarlo. Senza considerare il fatto che il dj è un frontman che gestisce relazioni nel momento stesso in cui lavora e, per far funzionare la serata, deve creare empatia con il pubblico che ha di fronte. Ogni tanto qualcuno cerca qualche aiuto. Nel mio libro dedico un capitolo al fenomeno del food poisoning (intossicazione alimentare), la scusa preferita dai dj che si sentono male per aver abusato di qualche sostanza. Ti racconto un aneddoto: una sera, mentre stavo suonando l’apertura ai Magazzini Generali di Milano, ricevetti una chiamata dal manager di un famoso dj internazionale che avrebbe suonato dopo di me. Mi disse che si sentiva male e non si sarebbe presentato. Riuscì a convincerlo al telefono, accovacciato sotto la consolle. Quando si presentò era verde in faccia. Suonò e nessuno si accorse di nulla.
Da qualche anno vediamo sempre più dj donne farsi strada sulla scena internazionale…
L’avvento del digitale sta aiutando a creare una parità di genere che nel nostro mondo era assolutamente impensabile. In passato i negozi di vinili erano come le caserme e le ragazze neppure ci entravano. Inoltre con le attrezzature di una volta dovevi quasi essere un perito elettronico per poterci lavorare. Oggi è tutto più facile e certe barriere sono crollate facendo emergere anche talenti donne. È una tendenza inarrestabile e forse non tutte meritano la fama che hanno, ma è lo stesso per gli uomini, quindi lamentarsi non ha senso.
Quali città hanno influenzato Lele Sacchi?
Il mio riferimento è ancora Londra. È lì che ho sempre cercato e trovato le novità e le ispirazioni, anche se oggi Berlino è in assoluto padrona della scena, grazie alle sperimentazioni che ha saputo proporre negli ultimi anni e all’autorevolezza con cui è riuscita a imporre un proprio stile.
E poi c’è anche Ibiza…
Già, come molti anch’io sono legato a Ibiza. Per anni ha rappresentato la fuga. Bellissima e con una storia fantastica che ne giusti ca il successo: la comunità gay, gli hippie, il jet set internazionale. Forse è stata spinta troppo al limite, ma per me rappresenta ancora un sogno e ci torno sempre volentieri.
Cosa rappresentano oggi i festival per la scena elettronica internazionale?
I festival hanno sostituito le discoteche e, in parte, la club culture degli anni 2000. Sono un momento di incontro e di aggregazione, per certi versi simili ai rave di quando eravamo ragazzini. In certi Paesi sono riusciti proprio a traghettare la gente dai rave ai festival, con progettualità e investimenti importanti. E i risultati si vedono. Il festival numero uno per me resta il Sonar, l’evento che ha cambiato tutto e ha rappresentato la svolta. Per me nell’elettronica c’è un prima e un dopo Sonar. A Barcellona hanno portato cultura e contenuti, mettendo il dj al centro della scena come “artista”.
E come siamo messi in Italia?
Purtroppo da noi manca la cultura collettiva, la volontà politica e il venture capital per poter scommettere su eventi come il Sonar. Per questo bisogna ringraziare gli organizzatori di Club to Club e di altri festival italiani che fanno i salti mortali per tenere in piedi eventi che funzionano. Ma se vediamo i numeri che fanno in Paesi piccoli come Belgio o Danimarca non c’è paragone. Lì c’è la massa di pubblico per garantire il ritorno degli investimenti e se piove la gente si muove lo stesso. Da noi, al momento, non è ancora così.
Intervista pubblicata su WU 92 (novembre 2018)
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