GREG JAGER – THE COLOUR AND THE SHAPE
Greg Jager ha recentemente prodotto Metamuseo, un murale di 100 metri quadrati all’interno del foyer del MacRo. Colori e forme che si sposano con l’architettura di questo spazio e che sintetizzano bene questo momento del suo percorso artistico
di Enrico S. Benincasa
Deve essere una bella soddisfazione lasciare un segno nella propria città. Greg Jager, visual artist della capitale, lo ha recentemente fatto al MacRo con Metamuseo, un’opera di oltre 100 metri quadri situata nel foyer. Un murale che è un dialogo costante con le forme architettoniche della struttura creata da Odile Decq, rispettoso anche cromaticamente parlando di ciò che lo circonda. Non è un punto di arrivo, ma una tappa del suo percorso nel quale troviamo i graffiti ma anche la grafica, il design, la passione per l’architettura e l’interesse per la cultura digitale. Greg Jager non vive con conflitto la contaminazione tra questi mondi e cerca di ottenerne input per delineare meglio il suo linguaggio visivo, fatto di scelte decise e funzionali al suo bisogno di comunicare in campo artistico con le sue opere e il suo stile riconoscibile.
Come è nata la collaborazione con MacRo, che ha dato vita poi alla tua opera Metamuseo?
Con Giorgio De Finis, il direttore del MacRo, avevo già lavorato nel 2013 ad altri progetti. In quel momento ero all’inizio di un nuovo percorso e lavoravo più che altro con il lettering. Siamo rimasti in contatto e, a febbraio dell’anno scorso, mi ha proposto una residency, ma non vedevo questa possibilità in linea con quello che stavo facendo. Mi piaceva l’idea di confrontarmi con l’architettura del MacRo, perché lo spazio ha grande importanza nel mio attuale approccio artistico. La vedevo come un’opportunità di crescita, un’occasione per alzare l’asticella. Allora Giorgio mi ha proposto di fare qualcosa nel foyer, avvisandomi però che l’operazione avrebbe dovuto passare varie fasi di approvazione. Il bozzetto che ho presentato ha passato tutti questi step ed è nata Metamuseo, che è una delle opere che rimarrà di questo allestimento.
Quanto tempo ci hai messo?
Ci sono voluti due mesi tra indagini e studio. La scorsa primavera sono andato svariate volte al MacRo, in particolare durante i momenti di chiusura, per scattare foto e per capire come realizzare l’opera. Da lì poi sono nati tutti i processi di elaborazione grafica che hanno tenuto conto degli elementi strutturali architettonici. Alcune cose sono difficili da spiegare a parole, occorre essere dentro per capire come ho lavorato sui punti di vista e le prospettive.
C’è stato un confronto con chi ha realizzato il MacRo?
Non diretto, ma sono andato a studiarmi nel dettaglio il progetto di Odile Decq a cominciare dalla palette colori utilizzata per gli spazi museali. È più o meno quella che adopero io a eccezione del blu, che in questo caso non ho usato per essere il più possibile coerente con la struttura.
Perché hai deciso di utilizzare questa palette colori in maniera continuativa?
È una scelta glia di sperimentazioni. Lavorando con forme e geometrie astratte, il rosso e il blu aiutano a delineare meglio il tutto. Oltre che per una questione di ricerca, ci sono anche motivi legati alla fruizione, in cui c’entrano anche i social: la palette colori che utilizzo – rosso, blu e tutta la scala di grigi – aiuta a percepire un lavoro anche dallo schermo di uno smartphone. E in qualche modo poi questa palette cita direttamente il mondo digitale, a cominciare dalla vicinanza ai colori dell’RGB.
È stato difficile artisticamente parlando fare queste scelte?
Ho vissuto in maniera burrascosa tutto quello che è successo prima di iniziare questo percorso che mi ha portato a fare certe scelte. Volevo esprimermi, ma non trovavo una strada, ho fatto tanti studi e tanti test. L’idea estetica attuale è frutto quindi di un percorso, di una sintesi alla cui base c’è stato tanto lavoro per costruire la mia identità artistica.
Cosa vuol dire, da romano, avere un’opera in pianta stabile in un museo come il MacRo?
È una grande soddisfazione, anche perché a dirla tutta non ero così sicuro che il mio bozzetto venisse approvato (ride, NdR). Quando ho avuto l’ok da De Finis non mi sembrava vero. C’è soddisfazione, ma anche un senso di responsabilità perché in città non siamo in tanti a operare nell’ambito del post graffitismo e in questo tipo di astrattismo.
Nel tuo stile convivono in armonia un po’ tutte le tue esperienze e passioni, dalla street art alla grafica, dall’architettura al design…
Ho iniziato a fare graffiti dal 1997 e dal 2001 lavoro nel campo della grafica come art director. Non mi è mai mancata la voglia di dire qualcosa e penso sia stato naturale sperimentare portandosi dietro anche retaggi di altri linguaggi che hanno fatto parte della mia vita.
Come vivi la grande importanza che hanno i social nella diffusione di un contenuto?
Bisogna essere intelligenti nell’utilizzo delle piattaforme. Per me il mondo digitale è sempre stato fonte d’ispirazione, anche attraverso altri linguaggi diversi da quelli visivi come per esempio la musica elettronica. La fruizione social dell’arte ha portato, per esempio, anche effetti su come e su dove si fanno opere. Le tante facciate cieche dipinte che vediamo oggi sono una conseguenza del fatto che entrano perfettamente in uno scatto che poi rende bene sullo schermo di uno smartphone.
La foto può diventare più importante dell’opera o l’opera stessa, quindi…
Sì, c’è il rischio, poi c’è da capire se si tratti o meno di un rischio. Ci ho pensato molto in passato, soprattutto quando andavo a lavorare nelle fabbriche abbandonate. Cercavo questi posti per staccarmi dalla città e dal suo rumore visivo indecodificabile causato dalla sovrabbondanza di tag, stencil, adesivi ecc. In uno spazio abbandonato sei spesso solo e hai il tempo di progettare il tuo artwork, poi viene fuori la questione della fruizione, visto che si tratta di luoghi scelti proprio perché non accessibili. È una provocazione se vogliamo, può essere una scelta ma diversi lavori che vedo nascono proprio perché vivano in foto.
Hai recentemente collaborato con Fendi per un progetto sull’arte romana e hai esposto a Parigi per una collettiva. Su cosa stai lavorando ora?
Proprio settimana scorsa c’è stata la presentazione della mia collaborazione con Fendi: si tratta di Roma/Amor, un dipinto 4×4. Mi hanno contattato loro, hanno trovato i miei lavori diversi dall’estetica che hanno visto in giro, in particolare a Roma. A me le collaborazioni con i brand piacciono e quelle con la moda in genere mi divertono. Ho da poco iniziato un’altra collaborazione con Pppattern, neonato brand di design italiano. Per il 2019 l’idea è di lavorare più che altro all’estero, non posso ancora dare anticipazioni, vediamo cosa succederà.
Intervista pubblicata su WU 92 (novembre 2018). La foto in apertura di Greg Jager è di Gianfranco Fortuna
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