SIMONE BIAVATI – MANGIA, SUONA, SCATTA
Simone Biavati, classe 1999, ha frequentato il liceo artistico di Brera e ora studia all’Accademia Nuove Tecnologie dell’Arte. Un paio di anni fa ha iniziato a scattare seriamente, oggi divide la sua vita tra studi, fotografia e musica, che vorrebbe trasformare in un lavoro
di Alessandra Lanza
Non è detto che crescere in mezzo alle immagini di un nonno fotografo e di un padre che lavora nell’ambiente ti porti a ripercorrerne i passi, ma a volte una certa eredità non può che esprimersi in una spontanea inclinazione, già a 19 anni tradotta in bravura e in una promessa per il futuro. Ho scoperto Simone Biavati su Instagram, grazie al suo profilo con un centinaio di foto, o poco più. Quasi tutte ritraggono personaggi del giovane panorama musicale italiano contemporaneo, con una vocazione particolarmente rap e indipendente, che rispecchia i gusti dei ventenni di oggi. Al di là dei soggetti, le sue foto si distinguono per il sapore analogico – e in effetti gran parte di quelle immagini è realizzata in pellicola – e per una certa sincerità, che traspare persino da quelle in posa realizzate in studio. È il modo di guardare di chi non si limita ad ammirare o indagare, ma riesce a leggere una sintesi nei dettagli.
Su Instagram hai poche foto e la prima risale a fine 2016. Hai fatto recentemente pulizia o hai semplicemente postato poco?
Ne ho archiviate molte. Ho aperto il profilo circa tre anni fa perché i miei amici insistevano. All’inizio postavo le classiche immagini di viaggio, scattate durante le gite scolastiche.
Quando ti sei convinto di poter andare oltre?
Nell’estate del 2017. Volevo fotografare Willie Peyote al Carroponte. Ho rotto le scatole per l’autorizzazione, insistendo per fare il backstage. Ho chiamato il booking una dozzina di volte, finché non mi hanno risposto «sì». Ero molto gasato: oltre a essere da tempo fan di Willie, mi interessava l’idea di fare foto a qualcuno che vivesse della sua musica – che è poi quello che spero di poter fare anche io. Il rischio è diventare “l’ennesimo fotografo di concerti”, e ce ne sono tanti, per non parlare della retribuzione. Pur con questa consapevolezza, per mesi mi sono fatto vedere a tutti i live, mi sono fatto conoscere e sono rimasto sveglio di notte per mandare le foto, mentre gli altri festeggiavano all’after party. Poi ho deciso di spostarmi da quest’ambito, per fare qualcosa di più personale.
C’è concorrenza. Cosa fa la differenza secondo te?
Alla base di tutto lo studio: la fotografia è comunque un linguaggio. Avere un rapporto che non sia esclusivamente con l’artista, ma con tutti quelli che lavorano con lui. William Claxton era così inserito nel contesto in cui lavorava (il jazz, NdR) che i musicisti nemmeno più si accorgevano della sua presenza. Bisogna guadagnarsi la fiducia di tutti, essere invisibili ma vicini e pronti al momento. Fare la gavetta, che è un investimento sul futuro. Fare tantissime foto, studiare quello che fanno gli altri e cercare di fare l’assistente quando si è giovani. Uno che ha 30 anni e deve mantenersi non può vivere di questo. Che poi anche averne 19 è un problema: finché scrivi da dietro un computer e mandi un portfolio tutto ok, ma appena scoprono la tua età o che hai pochi follower su Instagram crolla tutto, soprattutto dal punto di vista retributivo. A meno che dietro non ci sia qualcuno che ti riconosce un buon potenziale, rimani quello di 19 anni con la passione per le foto.
Come sei “uscito” dai backstage, scattando poi per Coma_Cose, Venerus o Mecna?
Ho fatto alcune foto ai Coma_Cose prima di un concerto, lo scorso settembre. Alla loro etichetta Asian Fake sono piaciute molto e mi hanno chiesto di realizzarne altre al Parco Lambro. Poi mi hanno chiamato per Venerus, che aveva l’EP in uscita, offrendomi la mia prima vera possibilità di fare foto che non fossero quelle di concerto, in cui ho potuto mettere in pratica un approccio più personale. In generale, ho sempre e comunque cercato anche canali alternativi. Ho scritto per esempio a Gigi Barocco, che mixa gli album di Universal, per chiedergli di poter fare qualche foto durante il mixaggio. Sono i momenti che preferisco, in cui l’artista è concentrato e umano – e sono foto che altri non hanno. Lì ho fotografato Franco126 e conosciuto Mecna, per cui poi ho fatto le foto in studio.
Ci sono fotografi a cui ti ispiri?
Mi piace la fotografia di moda, vorrei studiarla per poi dedicarmi al reportage, così da valorizzare al meglio personaggio e ambiente. Penso ad Annie Leibovitz o a Richard Avedon, che con il suo Workers mi sta ispirando molto per un prossimo progetto con Ketama. La Chapelle, per il suo essere fuori di testa. Sha Ribeiro, per i progetti. Forse mio padre, anche se non lo ha mai fatto per professione, ma spronandomi mi ha mosso più di chiunque altro.
Chi ti piacerebbe fotografare?
Ketama126, ma soprattutto i miei amici, in un modo che sia personale e riconoscibile per tutti. Tra le foto di cui vado più fiero ce ne sono proprio alcune che ho scattato a loro. E mi piacerebbe fotografare anche musicisti jazz, visto che al momento è una strada decisamente meno battuta.
Cosa ti ha spinto a scattare in pellicola?
In parte mio padre, in parte la volontà di conoscere “la materia”, in tutti i sensi. Sto studiando per sviluppare da solo e ho comprato uno scanner per abbattere le spese. La pellicola poi è tutta un’altra cosa. Non ti dico che una foto viene bella per forza, ma ha un valore aggiunto che può essere compreso sia da chi è del settore, sia da chi non lo è. Il mio professore di fotografia in Accademia mi ha fatto riflettere anche sul discorso della memoria: ora durante gli shooting la mia ragazza scatta il backstage in analogico, vorrei rimanesse qualcosa.
Sei spaventato dalla concorrenza?
Principalmente no. All’inizio ero un po’ geloso del mio lavoro o dei miei strumenti. Scatto spesso con la Minox che mi ha lasciato mio nonno e ho usato molto la Nishika (una macchina che permette di scattare quattro foto, che assemblate risultano in 3D e in movimento). All’inizio in Italia era poco conosciuta, ora, sdoganata anche da Simone Tadiello, la usano in molti. Se prima rosicavo, ho imparato che bisogna andare oltre al soggetto e al mezzo: una foto con la Nishika viene sempre figa, soprattutto se stai ritraendo qualcuno di famoso, ma è fin troppo facile. Chi sa davvero quello che fa rimane, anche se ci metterà 5, 10, 20, anni a emergere. In un’intervista a Paola Zuckar e Guè si diceva che tutti si allenano per i 100 metri e nessuno per la maratona. A volte penso che prima di caricare le foto su Instagram avrei dovuto realizzare un progetto mio, che non ho ancora. Ho paura di bruciarmi troppo in fretta. Ma se ti fai i contatti e lavori bene, rimangono; se piaci ti richiamano, mi è successo con Mecna. Poi magari non ti chiamano per la copertina, però…
Come ti vedi a 25 anni, ora che ne hai 19?
Spero vada tutto bene riguardo a quello in cui sto investendo tempo e soldi. Mi vedo con una casa a Milano, bruttina ma più vicina al centro, assistente di un bravo fotografo. A fare le stesse foto che sto facendo adesso, ma che siano riconoscibili, per cui si possa dire: «Quella l’ha fatta Simone Biavati». Oggi per me è importantissima anche la musica: suono la chitarra, ho iniziato cinque anni fa da autodidatta, e da un anno suono con il mio gruppo, che esiste da quattro. Stiamo facendo le cose seriamente e se andrà tutto bene spero staremo facendo grandi concerti, magari all’Alcatraz. Per Assago aspetto i 30, tanto ormai ci arrivano tutti.
Intervista pubblicata su WU 94 (febbraio marzo 2019). La foto in apertura di Simone Biavati è di Alessandra Lanza.
Qui l’IG di Simone Biavati
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