WATCHMEN E L’ESPANSIONE DI UN UNIVERSO PREESISTENTE
Il rilancio televisivo della miniserie a fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons, a cura di Damon Lindelof (la mente dietro ‘Lost’), ha avuto la sua premiere lo scorso 20 ottobre, giorno in cui è stata trasmessa in contemporanea con gli Stati Uniti anche nel nostro Paese su Sky Atlantic
di Davide Colli
Uno dei compiti più difficili per uno sceneggiatore (o per uno showrunner in questo caso) consiste nella trasposizione di un materiale già stato soggetto, negli anni passati, a precedenti declinazioni su altri medium, in particolar modo se l’oggetto in questione viene considerato in maniera unanime uno dei caposaldi dell’ottava arte e se, alle spalle di questo progetto televisivo, c’è un adattamento cinematografico che ha polarizzato in maniera decisa le opinioni.
Per tutta questa dietrologia, affidare a Damon Lindelof, uno dei padri della rivoluzione della serialità televisiva, le redini di Watchmen sembra essersi dimostrata una scelta oculata, proprio perché una specifica costante del suo lavoro anche in ambito cinematografico (si è occupato della sceneggiatura di Prometheus) è rappresentata dalla sua intenzione di scavare nel mito, evitandone il totale stravolgimento, ma approfondendone gli aspetti più celati e invisibili.
Così come ha fatto con il primo capitolo prequel della saga di Alien, Lindelof si occupa di espandere ed esplorare un universo che dalla carta prende vita sul piccolo schermo: il disinteresse verso un’operazione di mero copia/incolla della materia originale si concretizza in una miscela di quest’ultimo con il gusto dell’attualità, con i valori che contraddistinguono la realtà di tutti i giorni. Il lavoro di Lindelof è in grado di far comprendere allo spettatore quanto il Watchmen fumetto sia di spessore proprio dimostrando quanto possa essere declinabile alle tensioni politiche e sociali che gli Stati Uniti affrontano nel presente e quindi sancendo la sua immortalità.
I protagonisti dell’opera di partenza non diventano altro che emblemi dall’aura intangibile, che si sostituiscono al simbolismo del reale, ma la cui presenza soprattutto si ravvisa negli ideali portati avanti dai nuovi personaggi introdotti, a cui danno corpo attori di prim’ordine come la freschissima di Oscar Regina King, Tim Blake Nelson (attore feticcio dei fratelli Coen, nonché protagonista della sequenza più suggestiva e alienante dell’episodio pilota), Don Johnson e Jeremy Irons. A dominare la scena, tuttavia, non è altro che lo zeitgeist di oggi, la persecuzione e l’ostracismo del diverso nelle modalità più palesate e al tempo stesso più subdole, poiché nascoste o discrete.
Watchmen si trasforma quindi in una parabola sull’uomo del 2019, in tutte le sua ideologie e ossessioni, dalla malattia spasmodica che li lega a un perenne possesso di armi da fuoco, quasi dei prolungamenti per i propri arti, fino alla loro necessità di congregazione e condivisione delle loro credenze più disdicevoli e al bisogno di negazione dell’identità e dell’anonimato come garanzia di intoccabilità. Una serie televisiva di cui lo stesso, ostinatissimo, Alan Moore sarebbe (forse) fiero.
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