CATHY LA TORRE – ATTIVISTA DI NATURA
Nella sua idea di bambina l’avvocato e il legislatore erano le persone più fortunate in assoluto, perché «potevano cambiare il mondo». E lei l’avvocato, o meglio, l’avvocatessa agguerrita contro discriminazioni e odio online, lo fa di mestiere per cambiare le cose
di Marilena Roncarà
Nata nel 1980 in provincia di Trapani, Cathy La Torre ha deciso a nove anni che sarebbe diventata avvocato, perché voleva «aiutare le persone a migliorare la propria vita grazie al diritto». Ed è quello che ora fa ogni giorno, sempre più convinta che la «professione dell’avvocato si distingue per la possibilità di far avanzare la società civile». È seguitissima anche sui social – su Instagram ha 166 mila follower e se la cava bene anche sulle altre piattaforme – dove fa divulgazione quotidiana, parlando di attualità e anche di diritto. Nel 2019 Cathy La Torre è stata insignita a Bruxelles del Good Lobby Award nella categoria pro bono per la campagna Odiare ti costa, da cui cominciamo la nostra intervista.
Che cosa ha significato questo riconoscimento?
È stato importantissimo. Il pro bono in Italia è ancora un tabù per molti colleghi. Ho ricevuto diverse critiche e sono stata accusata di “svendere la professione”. Per me, al contrario è onorarla. Ovvio, tutti dobbiamo campare, ma se davanti a me ho una persona che non può pagarmi, la cui causa potrebbe creare un procedente nella tutela di diritti nuovi e ancora inesplorati, io decido di seguirla. Non per altro il mio studio si chiama “Wildside, human first”: esploriamo il lato selvaggio del diritto. Poi, per pagare bollette e vacanze ci pensa Odiare ti costa.
A proposito di Odiare ti costa, la vostra iniziativa nata per contrastare l’odio in rete, com’è cominciato il tutto?
Odiare ti costa nasce da una collaborazione di persone con background diversi: giuridico, filosofico e sociologico. Io e Maura Gancitano, bravissima filosofa, ci siamo domandate come poter fermare il fenomeno dilagante dell’odio in rete. Il dato più interessante è che la maggior parte dei commenti offensivi proviene da uomini e donne nella fascia d’età 40-60, tra cui rientrano stimati professionisti, gente con famiglia, rappresentanti di associazioni. Probabilmente sono persone con scarsa educazione digitale che pensano di non poter essere chiamati a rendere conto di tutto quello che viene detto o scritto tramite un profilo virtuale. E invece con Odiare ti costa vogliamo dire: attenzione, il web non è una terra di nessuno in cui tutto è lecito. La prassi che seguiamo è questa: chiediamo di inviarci i link dei commenti o dei messaggi privati diffamatori, acquisiamo post e profilo tramite un software ad hoc di digital forensic, rintracciamo l’autore del commento e mandiamo una diffida o direttamente notifica di atto giudiziario per richiesta del risarcimento danni.
Sei in prima linea nella battaglia LGBTQI+, perché questa scelta?
Perché quando nasci in un paesino della Sicilia ti accorgi di quanto nulla sia scontato, nemmeno il più basilare dei diritti: quello di essere chi sei. È stato solo trasferendomi a Bologna a 19 anni per studiare che mi sono accorta che un’altra realtà non solo era possibile, ma necessaria. Penso di essere un’attivista “di natura” perché non mi fermo all’indignazione, ma scalpito per cambiare le cose. Unirmi alla causa LGBTQI+ è stato il modo naturale di inscrivere il mio vissuto personale in una dimensione sociale, nazionale e internazionale.
Come hai vissuto questi mesi di emergenza sanitaria?
Difficile fare un bilancio. Rischiando di dire una banalità, credo che, sopra ogni cosa, la pandemia abbia dimostrato quanto ancora sia importante lo stare insieme. In secondo luogo, l’assoluta centralità di una buona comunicazione, soprattutto a livello istituzionale. Infine, abbiamo assistito a un’accelerazione notevole nella transizione all’età digitale. Siamo di fronte a un “fatto sociale totale” secondo la definizione di Mauss. Ma con la vertigine digitale, sono aumentati anche i rischi connessi. Il mio studio si occupa di privacy e diritto delle nuove tecnologie e abbia- mo registrato un aumento esponenziale degli attacchi malware, data breach (vedi il caso INPS), sabotaggi e furti d’identità, per non parlare delle fake news. Rispetto a questo scenario, due sono le priorità: educare i cittadini al concetto di privacy come “io-digitale” e investire a livello statale in un’infrastruttura cloud pubblica, con stringenti misure di protezione. A oggi infatti, la maggior parte dei nostri dati sono impropriamente posseduti dai soliti colossi della rete: Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Twitter.
Sei italo-americana, nata a Castellamare del Golfo (Trapani) e vivi tra Bologna e Milano. Come vede Cathy La Torre questa nostra Italia?
È un Paese variegato, con profumi e colori diversi, che è ciò che lo rende unico. Il problema è quando la differenza si trasforma in discriminazione, in minor opportunità, in disuguaglianza. Purtroppo, il Sud è ancora il grande emarginato e questo mi dispiace molto date le mie origini. Credo vi sia la necessità di ripartire dall’inclusione, dal dibattito aperto sui temi che riguardano tutti, quali lavoro, ambiente e diritti civili. Con la sindaca di San Lazzaro, Isabella Conti, abbiamo appena realizzato un bilancio generazionale, che è un esperimento pilota in tutta Italia. È un bilancio che non si limita a mettere in fila numeri e misure, ma che valuta, settore per settore, gli impatti che queste misure hanno sulle diverse generazioni. Si parte dai bisogni specifici delle fasce d’età: di cosa hanno bisogno i più piccoli, i teenager, le giovani coppie, le famiglie e gli anziani? Bene si comincia da questo e da quello.
Intervista pubblicata su WU 102 (luglio 2020)
Nella foto in alto: Cathy La Torre
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