FABIO WEIK – L’EFFETTO WOW NON BASTA
L’artista milanese è reduce dagli ottimi riscontri di Ermeneutica Chapter I, la sua ultima personale dove ha affrontato il tema dei migranti con una serie di opere site specific di grandi dimensioni. Alla ricerca del bello, ma senza dimenticare il ruolo sociale dell’artista
di Enrico S. Benincasa
Milanese della Comasina, classe ’84, Fabio Weik è partito dal writing ed è poi approdato nel mondo dell’arte contemporanea, dove da più di dieci anni si esprime in varie forme – pittura, ma anche video e installazioni – in Italia e all’estero. Al centro della sua produzione c’è il tentativo di raccontare la contemporaneità partendo da come è raccontata dai media, soffermandosi su come viene trattata e alle volte distorta. Per Weik il carattere sociale di un’opera non è in secondo piano rispetto a quello estetico, sono due dimensioni che devono parlarsi e andare “d’accordo”, per il bene dell’arte di oggi e di domani.
Come hai passato il lockdown? Dai social mi sei sembrato molto attivo…
Arrivavo dalla positiva esperienza di Ermeneutica e, come tutti, mi sono trovato in casa, senza la possibilità di andare in laboratorio, allora mi sono dato da fare con quello che avevo a disposizione. Ho provato a realizzare diverse opere, tra cui una ispirata proprio al lavoro di Ermeneutica. Si tratta di una barca piena di migranti, con le miniature placcate dello stesso colore delle coperte isotermiche. Non pensavo uscisse così bene e sono contento, è stato un modo per portare avanti il lavoro fatto con la mostra.
Ermeneutica Chapter I, la tua ultima mostra dello scorso ottobre a Milano, affronta il tema delle migrazioni e ha un forte legame con l’attualità. Possiamo considerarlo un tratto centrale della tua produzione?
Da sempre prendo ispirazione dalle dinamiche del mondo dei media e, in particolare, dalle notizie, dal percorso che fanno prima di “sgonfiarsi”. Cerco di approfondirle proprio quando parte questa fase. Ci sono poi delle cose più introspettive nella mia produzione, ma non manca mai il legame con la realtà, con il periodo storico che stiamo vivendo.
La rilevanza sociale del lavoro dell’artista è per te fondamentale, quindi?
Sì. Oggi siamo molto focalizzati sul lato estetico dell’arte. A me interessa anche questo, ma non meno del risvolto sociale e culturale. È una connessione che non sempre è esplicita nelle mie opere, ma è presente. Per esempio, in Ermeneutica il legame con il dramma dei profughi è da scoprire: c’è un elemento, un materiale che è la coperta isotermica che è uno dei “conduttori” del messaggio che voglio portare. Un elemento che è già stato utilizzato, nel mio caso la difficoltà è stato il tipo di lavoro per riprodurre le immagini dei cartigli su questo supporto e in questa dimensione. Ho eseguito tutto a mano con la tavoletta grafica, facendo anche ricerche su testi in latino per capire come terminare le parti mancanti dei cartigli del Cinquecento che ho preso come soggetto.
Il fatto che ci sia un Chapter I nel nome lascia presagire che arriverà anche un secondo capitolo…
Sarebbe dovuto arrivare a breve, il progetto si è fermato causa Covid. Il capitolo 2 vorrei che fosse più legato al mare e e sto organizzandomi per realizzarlo.
A un certo punto della tua carriera sei andato a Dubai e ci sei stato qualche anno. Perché proprio gli Emirati Arabi?
Volevo confrontarmi con una società differente. Dubai mi offriva questa possibilità e aveva caratteristiche interessanti: un mix culturale affascinante, anche perché ha un altissimo tasso di religioni presenti in poco spazio; poi è una società non abituata allo storico artistico, ma con forte interesse per l’arte. È stato sfidante e mi ha fatto crescere e conoscere molte persone tra cui anche Valentina Bizzotto, la curatrice di Ermeneutica.
In una realtà diversa dalla nostra come quella, ci sono dei limiti all’arte?
Ti racconto un aneddoto. Un giorno, in una galleria di Dubai inaugurava una mostra di Pistoletto. Tra le opere ce n’era una composta da un tappeto da preghiera posto davanti a uno specchio. Un rappresentante della cultura del posto si è messo a discutere con lui a proposito dell’opera e Pistoletto, con garbo, l’ha difesa senza arretrare di un millimetro. Essere grande nell’arte vuol dire portare un’opera del genere proprio nel posto dove non si dovrebbe portare, difendendola se necessario.
Un bell’aneddoto e un bell’esempio da seguire…
Sì, lo è per tutta la generazione di artisti di cui faccio parte, perché questo mestiere comporta anche andare contro le regole e i sistemi precostituiti. Oggi va avanti il bello e non il sociale, non basta “l’effetto wow” che un’opera può dare. Abbiamo una responsabilità come artisti, tra cui anche difendere la propria opera.
L’effetto wow oggi ha un grande limite, quindi.
Il lato creativo cresce, ma senza basi, e così non si va avanti nel tempo. L’effetto wow va bene, ma dopo ci deve essere qualcosa. L’arte non cerca l’acclamazione del pubblico, se come artista la persegui stai facendo una cazzata. In un’era in cui c’è tantissima creatività, non possono contare solo i numeri o il giro in cui sei. Noi artisti, per primi, dovremmo rimettere al centro la critica, che è un elemento fon- damentale del sistema.
Tu vieni dal mondo del writing, che ruolo ha oggi nella tua vita?
Sono partito da lì ed è una dimensione per me importante, che mi ha dato un in- dirizzo e la possibilità di fare un percorso. Faccio parte di due crew – TDK e Interplay – e continuo a fare graffiti, ma è un ambito che tengo separato dall’arte contemporanea.
Ci sono degli elementi che ricorrono nelle tue opere, come il monoscopio, il teschio e i riferimenti all’arte greco-romana. Che radici hanno?
Il monoscopio l’ho scelto perché rappresenta bene la televisione, il media che ha formato la mia generazione. Amo gli ossimori temporali, come portare icone classi- che nel mondo di oggi per rappresentare quest’ultimo. Per esempio la Venere Italica rappresenta bene le soubrette della televisione, mentre Perseo la figura del profugo. Il teschio, che a volte ho associato al monoscopio, mi ha aiutato a simboleggiare la “morte” delle notizie, l’interruzione dell’informazione, la fine delle trasmissioni.
Stai collaborando con Boss Doms a un nuovo progetto: cosa ci puoi dire a proposito?
È un tentativo che mi piace molto, con cui sto cercando di diversificare il lato creativo. È una persona che ha talento, una vasta conoscenza della musica e una mentalità da artista contemporaneo. Stiamo lavorando insieme da prima del lockdown per creare il lato visivo del suo nuovo progetto musicale. A breve si capirà meglio tutto.
Da qualche mese è mancato Eugenio Borroni, “papà” di Fabbrica Borroni, un posto importante per l’arte a Milano e una persona fondamentale nel tuo percorso artistico. Che ricordo hai di lui?
È una persona che ha fatto molto per l’arte italiana. Lo considero come uno zio, ha creduto in me dagli inizi e mi ha dato una possibilità. È uno che ha cercato di agevolare il passaggio di testimone tra diverse generazioni di artisti, assimilando nello stesso tempo tantissimo dai più giovani. Ha creato Fabbrica Borroni, un enorme scrigno che contiene l’arte contemporanea degli anni Zero e non solo. Ce ne sono stati pochi e coraggiosi come lui. Se ce ne fossero stati di più, oggi avremmo avuto uno scenario differente.
Intervista pubblicata su WU 102 (luglio 2020)
Nella foto in alto: Fabio Weik, foto di Federico Laddaga
Fabio Weik su Instagram
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