EYES MAKE THE HORIZON
Michael Zuhorski con ‘Eyes Make the Horizon’ ha dedicato un progetto fotografico alle vie d’acqua dei territori del Lago Superiore nel Michigan, posti che conosce fin da quando era bambino
di Alessandra Lanza
Michael Zuhorski ha viaggiato poco al di fuori del Midwest. Ha imparato a conoscere i territori del Lago Superiore dove trascorreva le vacanze da bambino, e dedica oggi a questi paesaggi un progetto fotografico, Eyes Make the Horizon, che ne indaga le vie d’acqua, proponendo una fenomenologia della visione. Anche se, in minima parte, ognuno di noi vede lo stesso luogo in maniera diversa, a seconda di ciò che evoca alla propria memori.
Ti ricordi la prima fotografia che hai scattato nella tua vita?
Ricordo più che altro i primi mesi in cui mi sono davvero appassionato alla fotografia, avevo 14 o 15 anni ed ero ossessionato più piccoli dettagli delle cose. Ho molti ricordi di me che andavo in giro camminando da solo, era per me una sorta di fuga: era il periodo della recessione e ho iniziato a usarlo come scusa per uscire di casa ed evitare le tensioni familiari. Un po’ alla Guy Debord, da teenager usavo l’ambiente circostante al di là della sua funzione primaria.
Quando hai capito di voler fare questo per lavoro?
Credo alle superiori. Non mi piaceva molto la scuola, preferivo passare il mio tempo a fare foto e uscivo con una persona che aveva la mia stessa passione, abbiamo anche frequentato la stessa accademia d’arte. Tutta la mia passione e la mia attenzione si sono inevitabilmente riversati lì. La fotografia mi stava persino più a cuore della mia vita sociale: spesso invece di uscire con gli amici prendevo la macchina e andavo in giro per la città a fare esperimenti con le lunghe esposizioni. Per me girare di notte per Detroit mentre tutti gli altri dormivano era una sensazione impagabile.
In effetti i paesaggi di Eyes Make the Horizon sono spesso sospesi in una sorta di isolamento, in cui la relazione con il fotografo sembra esclusiva.
Nelle mie fotografie tendo in generale a fotografare cose che alla fine all’interno dell’inquadratura risultano piuttosto isolate. Io stesso nell’atto fotografico mi isolo, mi sento molto solo, e smetto di interagire con le persone. Questa condizione mi rende più produttivo, per questo preferisco fotografare in mezzo al nulla, prima dell’alba o al crepuscolo, oppure in inverno quando in giro non c’è nessuno: mi permette di non dovermi preoccupare delle persone che ho intorno. C’è un tipo di narrativa molto americana nella fotografia di paesaggio, in cui la persona sola, in modo individualista, si appropria del paesaggio, pensa a Stephen Shore o a Joel Meyerowitz. Mi sono inizialmente dato il tormento pensando al fatto che anche io stavo facendo la stessa cosa, ma poi mi sono reso conto che io stavo cercando di fotografare in un modo più “gentile”: per me è importante il complesso rapporto tra natura e cultura, insieme al tema ecologico e politico. Per questo ho inserito anche fotografie di recinzioni e di oggetti palesemente realizzati dall’uomo, usando lo stesso linguaggio che avrei usato per forme e oggetti naturali.
Ci sono stagioni diverse in Eyes Make the Horizon. Com’è cambiata la tua percezione nel tempo?
Stavo seguendo i corsi d’acqua che affluiscono dal Lago Superiore, il più grande specchio d’acqua del Nord America, preponderanti nel dare forma al paesaggio e nel guidare la mia percezione. D’estate tracciarli era più facile, mentre d’inverno erano spesso nascosti e coperti dal ghiaccio. In questo movimento costante scandito dall’acqua ho scoperto una sorta fragilità, insieme alla delicatezza dell’area dal punto di vista ecologico: è il più grande bacino d’acqua potabile del mondo ed è sottoposto a un continuo stress da parte dell’uomo. C’è sempre una differenza, seppur minima, nel modo in cui ciascuno di noi vede uno stesso posto: dipende dalle associazioni che propone la memoria di ciascuno. Da piccolo non ho viaggiato molto: per noi della classe media di Detroit era comune spostarsi in macchina verso nord per passare le vacanze sul lago, un territorio pianeggiante che mi ha abituato a guardare verso il basso. Anche questo ha determinato parte del mio lavoro, mostrando quanto si tratti di un territorio ricco dal punto di vista geologico. Il rosso e l’arancione dipendono dai giacimenti di ferro che ci sono lì intorno.
I titoli delle tue immagini corrispondono a coordinate di latitudine e longitudine. L’idea era di collocare i paesaggi dentro una mappa?
Ci ho pensato. All’epoca stavo fotografando infrastrutture e parchi nazionali americani in stile Scuola di Dusseldorf per il mio progetto di laurea. Poi mi sono trasferito lì e più che di documentare quel posto ho cercato di dare la mia percezione, lavorando su una fenomenologia della visione e del paesaggio. Per me era importante fornire allo spettatore le coordinate dei luoghi, anche se poi non ho accompagnato il lavoro con una mappa vera e propria. Non è stato difficile ricostruire a posteriori il mio percorso: conosco bene quei paesaggi.
La fotografia è un modo di fermare il tempo. Nel tuo lavoro si percepisce invece un flusso continuo, dato non solo dalla presenza dell’acqua e dall’uso della lunga esposizione.
Penso dipenda dal modo in cui l’acqua ha influito sul modo in cui stavo fotografando, come se inevitabilmente “parlasse” alle fotografie. Quella concezione, come quella del momento decisivo, è limitante. C’è la soggettività del fotografo e il modo in cui influenza l’oggetto fotografato, il modo in cui quest’ultimo “permette” alla fotografia di accadere in un certo modo… È tutto molto più complesso del semplice “fermare il tempo”. La lunga esposizione mi permette di “comprimere” il tempo e di inserire più strati in un singolo frame. Gli esseri umani hanno bisogno di stabilità e così si impongono sull’ambiente; la fotografia è qualcosa di stabile, ma gli oggetti che ritrae sono una sorta di testamento del fatto che le cose sono in continuo mutamento, e per me è più facile comunicarlo tramite le immagini, che a parole.
Come hai scelto il titolo, Eyes Make the Horizon?
Stavo leggendo un saggio di Ralph Waldo Emerson, filosofo e scrittore americano dell’Ottocento, sull’esperienza e su come la soggettività umana influenzi l’ambiente – lui parlava del passaggio dal puritanesimo a un altro tipo di spiritualità. Ho trovato questa frase: «People forget that is the eye that makes the horizon», e mi è sembrata bellissima, come il suo modo di vedere le cose.
Ora che non vivi più in Michigan, ti mancano la vista e gli odori di quei posti?
Sì. Quelli del lago in primis. Il modo in cui influenza il tempo e il clima, l’aria, che lì ha una qualità altissima e prende il profumo degli alberi. Una freschezza che dipende dal fatto di essere così a nord e che ogni tanto ritrovo quando, dal campus di Syracuse dove vivo ora, mi avvicino al confine con il Canada.
Tutti i progetti disponibili sul suo sito sono stati scattati in Michigan, dove hai passato la maggior parte della tua vita. Ora che vivi altrove cosa stai fotografando, e come stai affrontando il nuovo ambiente?
Da quando mi sono trasferito ho affrontato grandi cambiamenti. Essere qui dal punto di vista emotivo è per me tuttora molto difficile, quindi mi sento autorizzato a fotografare qualcosa che non siano i paesaggi. Mi sono dato all’astrazione, curioso di scoprire se avrei potuto esprimermi in maniera ancora più… sintetica. Non voglio usare il termine “minimalista”, perché lo trovo riduttivo e quasi maschilista, preferisco la parola “formalista”. Durante la quarantena ho lavorato di più in studio, in un contesto che mi permette di fotografare in modo continuativo e ripetitivo: ero così interessato al posto in cui vivevo e passavo il tempo che la mia attenzione è finita lì, mi sono concentrato nel ritrarre piccolissime differenze tra oggetti che sfidano la percezione dell’occhio umano.
Sul tuo sito c’è un link che rimanda anche a della musica che hai composto negli anni scorsi e che ho trovato molto coerente con le tue fotografie, ascoltandola mentre le guardavo. Anche i titoli, da Hissing Leaves a The Orange, hanno una forte connessione con le immagini. L’hai composta nello stesso periodo? Per te c’è analogia tra la composizione di musica e di un’inquadratura?
Continuo a comporre e sto cercando un distributore per nuova musica a cui ho lavorato ultimamente. Penso alle due cose in maniera simile: devo mettere nell’ascolto la stessa concentrazione che impiego per mantenere in modo continuativo l’attenzione mentre fotografo. Il “minimalismo” che seguo è sicuramente quello della musica degli anni Settanta e Ottanta in particolare, che mi ha influenzato anche dal punto di vista visivo. La musica minimalista ha cambi molto piccoli, lenti e dilatati nel tempo, per notarli bisogna prestare molta attenzione. La mia fotografia si sta avvicinando sempre di più a questo modo di lavorare. Comunque sì, i due album di cui parli li ho composti proprio nello stesso periodo, ma non mi aspettavo che qualcuno li ascoltasse durante la visione della serie: a me l’abbinamento evoca necessariamente un’esperienza molto emozionale e nostalgica.
Intervista pubblicata su WU 105 (dicembre 2020 – gennaio 2021). Segui Alessandra su IG
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