ARIANNA TRICOMI – L’ALTRA FACCIA DELLO SCI
Il suo motto è “rischiare in sicurezza”: altoatesina da sette anni trasferitasi a Innsbruck, l’atleta azzurra è il volto gentile ma determinato (e vincente) del freeride, la disciplina più adrenalinica e meno riconosciuta tra gli sport invernali, almeno nel nostro Paese
di Stefano Ampollini
Arianna Tricomi è nata sotto il segno del leone e in quello che per l’oroscopo cinese è l’anno della scimmia, il 1992. Le caratteristiche di entrambi i segni sono la volontà, la sicurezza di sé, la determinazione e l’energia inesauribile. Per di più questa atleta dal carattere d’acciaio è cresciuta forgiata dalle montagne dell’Alto Adige con una mamma discesista e un papà pilota delle Frecce Tricolori. Che non sarebbe stata una ragazza qualunque era chiaro fin da piccola, ma il vero salto nella sua vita è avvenuto con il freeride, disciplina nella quale per tre anni consecutivi (dal 2018 al 2020) è stata campionessa del mondo.
Perché hai abbandonato le discipline alpine classiche e cosa ti ha spinto verso il freeride?
Ho iniziato presto a sciare e a vivere la montagna, soprattutto grazie a mia mamma (Maria Cristina Gravina, azzurra di discesa libera, NdR): a sei anni già praticavo il telemark e per dieci anni ho gareggiato nello sci alpino per poi passare a 16 anni al freestyle. Le troppe regole, però, non mi piacevano e mi hanno lentamente spinto lontano da quel mondo. Così, quasi per gioco, quando mi sono trasferita Innsbruck ho iniziato a partecipare a gare di qualificazioni per il Freeride World Tour, il massimo circuito mondiale di freeride. L’avvicinamento al Big Mountain è stato graduale, ma alla fine lì ho trovato la mia giusta dimensione, fatta di velocità e creatività. Pos- so quasi dire che è stato il freeride a scegliere me, più che il contrario.
A guardare il tuo profilo Instagram e i tuoi video sembra che tu tenda a privilegiare il “divertimento” piuttosto che la prestazione estrema. È così?
È assolutamente così. Molti atleti hanno bisogno di alzare al massimo il livello di rischio per divertirsi, mentre per me è stato sempre importante bilanciare la pre- stazione con la sicurezza. Anche in gara mi piace rischiare, ma valutando sempre le possibili conseguenze. Sembra un paradosso, ma amo “rischiare in sicurezza”. Tra l’altro so di essere una privilegiata, scio praticamente tutti i giorni e so che prima o poi arriverà la giornata buona, la neve giusta, le condizioni ideali per fare il trick o la linea voluta. Basta aspettare. Capisco che lo sciatore della domenica, per quanto bravo, ha più ansia da prestazione e vuole tutto subito. Ma questo può essere anche molto pericoloso. In montagna ci sono un sacco di cose da imparare, ogni giorno. Chi si avvicina a questo ambiente dovrebbe sempre ricordarselo.
La montagna è per tutti?
È brutto da dire, ma la montagna non è un luogo democratico e non è per tutti. È vero, il Covid ha certamente favorito un approccio più naturale e meno aggressivo, la chiusura degli impianti ha imposto l’uso delle pelli, ma continuo a vedere persone in situazioni estreme o ambienti wild che non sono per tutti. C’è un gap enorme nella preparazione di molti appassionati, o presunti tali, che non può essere colmato in poco tempo. A volte non può essere colmato affatto.
Come ha vissuto Arianna Tricomi quest’anno di restrizioni dovute alla pandemia?
È stato un anno molto complesso anche per noi atleti, soprattutto in Italia. Le innumerevoli lettere inviate dai nostri sponsor per chiedere l’autorizzazione di farci utilizzare gli impianti per allenarci non hanno avuto alcun effetto. Questa è la conseguenza del fatto che da noi il freeride non è una disciplina riconosciuta dal CONI o dalla FISI, ma soprattutto non c’è la stessa cultura della montagna come in altri Paesi alpini e il giusto rispetto per chi vive e lavora in questo ambiente. Mentre noi professionisti ci potevamo muovere solo con le pelli, i ragazzini degli sci club erano invece autorizzati a prendere gli impianti a noi vietati. Anche per questa ragione nell’ultimo anno ho sciato soprattutto in Austria. Qui lo sci è lo sport nazionale e il governo di Vienna ha scelto fin da subito una linea molto coerente, applicando un lockdown duro fin dai primi di novembre, ma al tempo stesso tenendo sempre aperti gli impianti per tutti, con le dovute attenzioni. E non hanno mai fatto marcia indietro. Oltre ad affermare il principio che con lo sci non ci si infetta, questa scelta ha regalato un sorriso alla gente in un anno molto difficile. In Italia, invece, oltre a una totale ignoranza e disinteresse verso l’economia della montagna, sembra prevalere l’idea che non puoi godere della vita perché c’è gente che sta morendo. È questo è profondamente sbagliato.
Per tre anni hai vinto il Freeride World Tour, la massima competizione mondiale di questa disciplina. Quali sono state le emozioni più forti?Certamente Verbier, dove ogni anno si svolge la finale del tour, è il palcoscenico che ti dà più adrenalina, ma io ricordo con piacere soprattutto la tappa di Fieberbrunn, in Austria: qui ho ottenuto la mia prima vittoria e sempre qui ho vinto la mia ultima gara lo scorso anno, peraltro con una caviglia rotta. Ma è anche la tappa del FWT dove ho ottenuto il risultato più deludente e ingiusto della mia carriera. Un altro luogo che ricordo con emozione è stata l’Alaska. La prima volta che ci gareggiai scesi con l’ultimo pettorale: difficile dimenticarsi quei panorami mozzafiato.
Intervista pubblicata su WU 106 (febbraio – marzo 2021)
Nella foto in alto: Arianna Tricomi. Tutte le foto nella pagina sono di Tobias Zlu Haller
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