VENEZIA 78° – DENIS VILLENEUVE, DUNE
In uscita nelle sale cinematografiche italiane il 16 settembre e presentato Fuori Concorso durante Venezia 78, Dune è l’ultima fatica di Denis Villeneuve, che ha deciso di lanciarsi nell’adattamento del romanzo fantascientifico di Frank Herbert, dopo il tentativo del 1984 di David Lynch
di Davide Colli
Sulla carta Dune, con la sua magniloquenza visiva già intuibile dai primi teaser, si porrebbe come il blockbuster autoriale definitivo, in grado di seguire quegli stilemi e quegli schemi che porterebbe al risultato finale di uno spettacolo per il grande schermo fruibile per ogni fascia di pubblico.
Contemplare scenografie mozzafiato solcate da alcuni dei grandi divi hollywoodiani attuali presenti nel cast (Timothee Chalamet, Oscar Isaac, Josh Brolin, Zendaya tra i tanti) possiede proprio quell’effetto crowdpleaser che la produzione ha probabilmente ricercato dopo il fallimento commerciale dell’ultimo grande progetto di Villeneuve, Blade Runner 2049. Due modelli di fantascienza complicata, in cui il semplice e pure sentimento di meraviglia che dovrebbe suscitare il genere portato sul grande schermo viene accantonato in favore di un dispiego di contenuti filosofici più o meno ingombranti o, nel caso di Dune, di un eccessivo tentativo di worldbuilding e di costruzione del racconto.
L’ingarbugliato intreccio e il suo chiarimento sono il focus principale del regista, oltre che la creazione di un estetica accattivante all’occhio dello spettatore (per quanto monocromatica nel suo frigido pallore). A discapito di ciò, i personaggi, dai principali ai comprimari, soffrono la mancanza di un dovuto approfondimento, diventando dimenticabili fantocci al servizio della storia. Si percepisce persino la mancanza di quegli abbozzati discorsi umanisti messi in bocca al Ryan Gosling di Blade Runner 2049, i quali avrebbero potuto costituire un punto d’interesse per lo spettatore un minimo più smaliziato.
Tutti questi elementi riconducono alla medesima conclusione: a Dune manca la capacità di coinvolgere lo spettatore, spesso ammorbato e schiacciato dalla dubbia cifra stilistica della messa in scena, quanto dell’acceleratore impostato dal regista per quanto riguarda la prosecuzione degli avvenimenti. La densità e l’opulenza visiva, purtroppo, non riescono a conciliarsi con un sano trasporto emotivo, con la suggestione con la quale il cinema dovrebbe nutrire il suo pubblico.
Nella foto in alto: Timothee Chalamet e Rebecca Ferguson
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Davide Colli
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