I FONTAINES DC AL TEATRO REGIO DI PARMA
Prendi i Fontaines DC e mettili a suonare al Teatro regio di Parma: cosa può succedere? Semplicemente un gran concerto, come quello andato in scena sabato 6 novembre per il Barezzi Festival. Ecco come è andata
di Carlotta Sisti
Ok i capannoni industriali e i club culto della scena musicale, ma poche cose al mondo si abbinano meglio al rock di un teatro di inizio Ottocento, grondante di affreschi ed ornamenti bianco e oro, con le sue poltrone di velluto rosso e la potenza di secoli di arte a commuovere gli occhi. Il Teatro Regio di Parma è più rock dello scantinato che diventa locale, e lo sa molto bene il Barezzi Festival, che per il suo ritorno con il pubblico in presenza è riuscito ad agganciare, per la sua prima e unica data italiana, i quintetto dublinese dei Fontaines DC.
La band che sta seducendo il mondo con la sua attitudine post punk, i richiami new wave, ma pure con una versatilità che li fa svirgolare verso ispirazioni garage, surf e rock ’n’ roll anni Sessanta, ha tenuto letteralmente in pugno il pubblico (finalmente al cento per cento) con un concerto che, se non fosse per la terribile assonanza, vorrei definire concentrato, denso, dritto, tiratovelocissimo e scevro di intramezzi, mosso dagli inquieti camminamenti in cerchio del cantante Grian Chatten, e finito troppo presto, proprio quando la platea s’era alzata e lasciata, giustamente, andare a balli scomposti.
Sì, perché per tre quarti del live durato poco più di un’ora, sembrava che fossimo davvero all’opera, ligi alle regole di compostezza come solo noi italiani pandemici e post pandemici abbiamo imparato ad essere. Ci si è sgolati, e ci mancherebbe, da subito, certo, ma mascherati, seduti, tendenzialmente composti, mentre il palco si infiammava di alcuni pezzi del primo disco, Dogrel, che fanno scintille come un’auto contro il guardrail. Con Too Real ci siamo fatti un tuffo nella paranoia urbana di rara intensità, con Sha Sha Sha il dolce, semplice battito di un tamburello ci ha incantati come un fiore che sorge da una crepa del marciapiede.
I Fontaines DC sono una band post-punk che rivendica una certa innocenza pre-punk. La loro storia di origine è così bizzarra e anacronistica, che rasenta il cosplay di flaneur, con il quintetto che si dice si sia legato grazie a un reciproco amore per la poesia Joyce, con tanto di serate al pub trascorse a scarabocchiare e recitare versi l’uno all’altro. Chatten, scosso come da un fulmine dal flusso di energia che gli arriva dai compagni, ha un’irrequietezza che ipnotizza, ma, soprattutto, con la sua naturale somiglianza con Ian Curtis, ha già la solidità di un frontman istrionico, che con apparente facilità (ma non c’è nulla di facile in questo) tiene saldamente le redini di uno show di cui avevamo bisogno.
Con Living in America noi fan dell’universo bahausiano abbiamo sorriso beati, A Lucid Dream sfreccia come una locomotiva guidata da un folle punk-blues, I don’t belong ha un groove da brivido, a lenta ma viva combustione, mentre l’inno più eroico della band, Boys in the Better Land, ci ha ricordato perché tutti dicono che hanno modernizzato in modo massiccio la musica irlandese. Romantici, intimi, selvatici e sinceri, i Fontaines ci hanno reso felici proprio come speravamo, nell’abbraccio di uno dei luoghi più belli d’Italia che, come noi, è tornato a respirare.
La foto in alto è di Elly Contini (IG)
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