‘THE FRENCH DISPATCH’ E L’ESASPERAZIONE STILISTICA
In concorso durante l’ultima edizione del Festival di Cannes, l’ultima fatica di Wes Anderson è una raccolta di episodi con centro nevralgico la redazione di un piccolo giornale francese e vede tra i protagonisti Bill Murray, Timothee Chalamet, Benicio Del Toro, Frances McDormand, Lea Seydoux, Tilda Swinton, Adrien Brody e Owen Wilson
di Davide Colli
The French Dispatch, a prescindere dall’opinione che si possa formulare sull’opera, rappresenta uno dei tasselli più importanti della carriera di Wes Anderson e, soprattutto, del percorso che la sua cifra stilistica ha intrapreso a cavallo di 25 anni. Un’evoluzione che ha portato a numerosi momenti di acclamazione, alla creazione di una foltissima cerchia di amatori e, con The Grand Budapest Hotel, un’ulteriore espansione del numero di appassionati del regista texano, dimostrando anche quanto un cinema così riconoscibile nei suoi precetti possa diventare un’alternativa alle solite formule ormai stantie all’interno dell’annuale corsa ai premi.
In The French Dispatch si racchiude l’ultima (?) fase che la firma di questo autore abbia conosciuto, un naturale passaggio che ogni cineasta si trova prima o poi ad abbracciare, ovvero l’estremizzazione degli stilemi del proprio marchio e la loro conseguente trasformazione in feticismi. La struttura narrativa, spezzettata da innumerevoli digressioni, così come i vacui dialoghi, perdono d’interesse, riducendosi a sterile accompagnamento a un corteo di immagini artificiose nella loro evidente perfezione compositiva. Anderson abbandona discorsi portanti delle sue recenti incursioni live action, quali la possibilità di creazione di un mondo in miniatura, a portata d’uomo, e soprattutto la progressione conversione delle vite e delle corporalità umane in sempre più parossistiche strisce animate, mostrando al pubblico uno showreel delle tecniche di cui la propria filmografia è cosparsa (ossessiva ricerca della simmetria, cambi di formato e zoom in e out in primis) senza una vera e propria attinenza al contenuto messo in scena, ormai scarnificato all’inverosimile.
Eppure tale strabordante deriva appare anche all’occhio più svogliato come frutto di una consapevolezza disarmante: gli attori, mai così ridotti a effimere pedine monodimensionali, quasi da far pensare a The French Dispatch anche come un ultimo atto di definitiva distruzione dello star power hollywoodiano, si fanno portavoce della volontà del regista fin dai primi minuti di film. L’esclamazione con sguardo a favore di camera da parte di Zeffirelli (Timothee Chalamet) di non criticare il proprio manifesto non rappresenta altro che, rispettivamente, l’impronta artistica di Wes Anderson, inattaccabile nella perentorietà con la quale si ripresenta inalterata di film in film, con tanto di scissione del giovane movimento creato dal suddetto scritto a incarnare metaforicamente le divisive reazioni ottenute dall’opera stessa, rendendosi prefigurazione del reale.
Persino nelle lapidarie parole pronunciate dal direttore del “French Dispatch” Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray) è ben leggibile l’intento egoriferito del regista, prendendosi gioco dell’apparente casualità percepita nell’utilizzo di determinati espedienti visivi ricorrenti nel suo cinema e della stessa reazione dello spettatore a ciò. L’ultimo lavoro di Wes Anderson è un’esperienza soffocante nella sua rigida e apatica impostazione, una sfida all’attenzione anche nei confronti del pubblico più fidelizzato, ma al tempo stesso un oggetto di studio terribilmente affascinante sulla libertà creativa raggiungibile da un artista in ambito mainstream. Una lettera d’amore non verso il giornalismo, ma nei confronti della propria poetica.
Nella foto in alto: Bill Murray, Wally Wolodarsky and Jeffrey Wright in ‘The French Dispatch’ (2021), photo courtesy of Searchlight Pictures
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