PER ESSERE NOI STESSI
Il giornalista e fotografo ucraino Serhii Korovayny racconta di un Paese che, prima di diventare il centro del mondo dopo l’invasione russa, aveva già tanto da offrire e si raccontava in un progetto alla scoperta di una bellezza che pian piano viene cancellata
di Alessandra Lanza
Mentre intervisto Serhii, che ha cambiato in ucraino la grafia del suo nome – il padre di origini russe lo aveva battezzato Sergey – in tv, nella stanza accanto, uno dei canali rimasti della televisione locale sta trasmettendo il film La bella e la bestia. Sono le prime settimane dallo scoppio della guerra, e l’intento di chi elabora i palinsesti è probabilmente quello di offrire una distrazione, in particolare ai più giovani, da quel costante senso di pericolo che attanaglia chiunque nel Paese. «È come se fosse un film da una vita precedente, è stranissimo. Ed è molto difficile staccare», racconta il giornalista via Skype.
«Ieri io e mia moglie abbiamo cercato di prenderci un giorno libero – entrambi quando non lavorano aiutano i loro connazionali a spostarsi in automobile all’interno del territorio, muovendo anche viveri e scorte –, ma dopo mezz’ora in cui non ci pensi e ti sembra di stare bene di colpo ricordi che c’è la guerra, o ricevi una notifica sul telefono: l’ansia e il dolore sono sempre con te». L’unico modo per non impazzire è non fermarsi, agire, fare avanti indietro: da Lviv a Kyiv, da Kyiv a Lviv, guidando, con una tappa intermedia dagli amici o dai familiari, men- tre un cugino sta combattendo nel Donbass. «Ho amici che la vivono meglio, che non si sentono così connessi alla guerra che c’è stata nell’est del Paese negli ultimi otto anni, ma noi non ci riusciamo».
Durante i primi giorni di conflitto Serhii ha lavorato soprattutto come producer, poi ha smesso di seguire le news: su quelle si stanno concentrando quasi tutti gli altri colleghi, in particolare quelli stranieri. «L’interesse nei confronti dei giornalisti locali è scemato rapidamente: succede in tutti i conflitti, ma è comunque frustrante». Lui preferisce andare alla ricerca di storie personali, da quelle di chi vive rifugiandosi tra i cunicoli della metropolitana, a quelle di chi si prepara a combattere in trincea. Lo fa per “Ukrainer”, testata fondata nel 2016 da un piccolo gruppo di giornalisti che volevano raccontare il proprio Paese e la propria gente, e che si sono trasformati in un’organizzazione di 300 volontari impiegati nella pubblicazione di storie da tutta l’Ucraina e tradotte in ben 12 lingue (l’italiano non è tra queste). «Ho preso parte al progetto quasi dall’inizio, lavorando come fotografo, video maker e producer. In Ucraina, e non solo all’estero, siamo sempre stati sottovalutati, in termini di natura o di cultura, così abbiamo iniziato a esplorare e a raccontare città e piccoli villaggi, persone e tradizioni».
Per la maggior parte degli stranieri, dice il reporter, l’Ucraina è sempre stato un Paese vicino alla Russia e con una lingua simile, con alcuni sportivi capaci, delle belle donne, il disastro di Chernobyl. «Con il 2014 e con la rivoluzione della dignità qualcosa ha cominciato a cambiare, è nato un interesse maggiore nei con- fronti del nostro Paese, perché abbiamo dimostrato di volere un futuro diverso. In otto anni c’è stato uno sviluppo rapidissimo in termini di cultura, economia, identità; noi stessi abbiamo cominciato a valutare meglio la nostra lingua, e la Russia in questo ha avuto un grandissimo ruolo, attaccando il Donbass, dove sono cresciuto e ho vissuto durante gli otto anni di occupazione. L’interesse internazionale nel tempo è scemato, ma ora è un momento in cui il mondo è giallo e blu e, una volta vinta la guerra, dovremo continuare a raccontarci al mondo».
Un progetto che “Ukrainer” potrà portare avanti: «Non abbiamo l’ambizione di essere un impero, di centralizzare il potere, ma vorremmo solo essere un Paese come un altro, come la Repubblica Ceca, o l’Italia», spiega. Il progetto abbraccia molti argomenti, dall’artigianato tradizionale alle bellezze naturali, dai temi come innovazione e trasporti a quelli legati al cibo. «Abbiamo viaggiato lungo i Carpazi, le coste del Mar Nero e dell’Azov, le steppe orientali, le foreste settentrionali e oltre. Quasi ogni città e villaggio che abbiamo visitato ci ha regalato una storia che non avremmo mai potuto immaginare. Abbiamo incontrato ucraini che producono formaggio, che gestiscono impianti eolici e solari, che cantano le canzoni dei loro antenati e cucinano piatti tradizionali, che sopravvivono in villaggi abbandonati, che prosperano nelle città moderne, e che combattono il passato comunista e proteggono l’indipendenza nel conteso confine orientale».
La testata paga le spese e i volontari mettono il loro tempo a disposizione per seguire le storie che vengono segnalate spesso via Facebook da chi abita in certe zone del Paese. «Ho collaborato il più possibile, compatibilmente con il mio matrimonio e il mio lavoro e con la mia permanenza negli Stati Uniti, ma avrei voluto fare di più: continueremo dopo la guerra, ci sarà tutta la Crimea da esplorare quando i russi se ne saranno andati!»
Io e Serhii parliamo della situazione dei media locali, di come ce ne siano molti di indipendenti, e di come quelli filorussi negli ultimissimi anni siano stati pian piano messi fuorilegge. Di come sembrino fare più notizia i giornalisti stranieri uccisi – la stampa, in effetti, dovrebbe essere intoccabile – dei civili, anche se le ultime notizie che riguardano crimini indicibili stanno scuotendo tutto il mondo. Nelle sue parole c’è molta rabbia, sto parlando con un collega, ma anche con una persona che vede la propria gente cadere sotto l’implacabile fuoco nemico. Mi ringrazia per la possibilità di verbalizzare tutto quello che sta provando. Chiedo a Serhii se non abbia mai pensato di andarsene con la sua famiglia, da quanto hanno cominciato a mettersi davvero male le cose. «Ho studiato per alcuni anni negli Stati Uniti, molti mi hanno chiesto perché non sono rimasto o tornato lì: me lo sono chiesto anche io e mi sono risposto che l’Ucraina è l’unico posto in cui posso essere me stesso, posso essere ucraino, è parte della mia identità. Chi di noi è scappato da città come Kyiv per rifugiarsi in zone più sicure vive con un costante senso di colpa per coloro che sono rimasti nei rifugi: è così per migliaia di ucraini».
Articolo pubblicato su WU 113 (aprile – maggio 2021). Segui Alessandra su IG
Tutte le foto presenti in questa pagina sono di Serhii Korovayny per “Ukrainer”