BIENNALE 79 – THE WHALE
The Whale è l’ultimo film di Darren Aronofsky, con un irriconoscibile (per via del trucco) Brendan Fraser, uno dei candidati alla Coppa Volpi
di Davide Colli
The Whale è l’opera ultima di Darren Aronofsky, che torna al Lido dopo il discussissimo madre!, vede come mattatore assoluto Brendan Fraser (già in odore di Coppa Volpi e Oscar) nei panni di Charlie, uomo di mezza età che, per colpa dei suoi 272 chili, è bloccato tra le mura della propria abitazione durante i suoi ultimi giorni di vita, provando inoltre a ricucire il complicato rapporto con la figlia Ellie (Sadie Sink).
L’incipit di The Whale, nella sua semplicità, presenta una potenza comunicativa devastante. Il grande schermo diventa la schermata di una video lezione sulla scrittura creativa tenuta dal professor Charlie (Brendan Fraser), di cui in quel momento lo spettatore conosce esclusivamente la voce profonda e cavernosa. L’icona nero pece con la quale sceglie di non mostrarsi, al contrario dei suoi studenti, fornisce al pubblico la porta d’accesso al film, che incomincia una volta che, con un progressivo zoom in, la totalità del campo visivo non viene inghiottita nell’oscurità. Lo spettatore è entrato nel rifugio nella balena del titolo, ma anche dentro di essa.
Spiace constatare, dopo una prima inquadratura così minimale ma al tempo stesso così densa di significato, quanto la cinepresa di Aronofsky si riduca in seguito a movimenti di macchina basilari, invisibili, che falliscono nell’intento di usufruire delle potenzialità del medium cinematografico.
The Whale è basato sull’omonima pièce teatrale scritta da Samuel D. Hunter e rappresenta l’ennesima dimostrazione di quanto la settima arte più recente che affonda le proprie radici nel teatro arranchi nel trovare una propria autonomia. Accanto all’incapacità di sfuggire dal regime del medium teatrale, The Whale rivela fin da subito la propria natura di operazione, di prodotto costruito con tutti i crismi per soddisfare determinate intenzioni. Brendan Fraser regala un’interpretazione inattaccabile, primo passo di una redenzione attoriale che tutti aspettavamo prima o poi giungesse, ma non è sostenuto da uno sguardo registico che ne esalti a dovere la performance.
L’occhio di Aronofsky si sofferma quasi esclusivamente a circumnavigare l’ingombrante trucco prostetico indossato da Fraser, in cerca della lacrima facile del pubblico. Questo modus operandi della mercificazione del dolore, della pornografia della malattia, si ripete pedissequamente riproponendo le medesime carrellate, gli stessi particolari sui segni del corpo di Charlie e gli ammorbanti momenti di ricaduta nell’ingordigia compulsiva di Charlie. A circondare il gigantesco personaggio principale ci pensano dei piccoli comprimari, privi di sfaccettature, la cui introspezione è minimizzata a un unico tratto caratteriale, a cominciare dalla figlia Ellie, occasione sprecata per offrire un vero contraltare alla linea di pensiero del protagonista.
A entrare in soccorso di questa povertà di intenti ci pensa il fil rouge della filmografia di Aronofsky, la tematica religiosa, che qui abbandona lo statuto di sottotesto (una scelta saggia dopo le imbarazzanti metafore di madre!), diventando lampante e portante. Purtroppo la suddetta componente ammorbidisce il cinismo che pervade di minuto in minuto il film, conducendo a una chiusa insoddisfacente, sempre direzionata verso il provocare forzatamente una reazione emotiva allo spettatore. The Whale è il buco nell’acqua del proprio regista di replicare un character study introspettivo e accurato come fu il suo The Wrestler, portando in sala invece un’opera che fagocita la bravura del proprio interprete principale in una marea di ricattatorie scelte registiche.
Nella foto in alto: Brandan Fraser in ‘The Whale’, photo courtesy A24
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