GIULIA CURRÀ – IF YOU MOVE, SOMETHING HAPPENS
L’artista milanese ci racconta Casa Cicca Museum, un progetto che la vede impegnata da oltre dieci anni e che indaga le dimensioni dell’abitare, del movimento e del rapporto che abbiamo con gli oggetti
di Giorgia Martini
Giulia Currà, artista e curatrice, il 12.12.12 ha inaugurato Casa Cicca Museum nell’ex appartamento della mistress Deborah the Queen, situato nella zona sud di Milano. Negli anni, mettendo costantemente in discussione il canonico concetto di abitare, ha ospitato artisti, artiste e affetti che hanno lasciato segni del proprio passaggio. Oggi è una casa museo e custodisce più di 3 mila oggetti, fra opere d’arte e libri. Casa Cicca Museum continua a vivere nelle vite di chi la attraversa, che siano performer, amici o avventori occasionali. Periodicamente cambia indirizzo, si sposta per riconfigurarsi ed è soltanto nel movimento che si può trovare la stabilità della sua identità.
Partiamo da quello che consideri il tuo motto: If you move, something happens. Da dove viene e cosa significa per te spostarsi?
Il motto me lo canticchiavo a Londra a sedici anni quando facevo il tunnel del Tamigi che collegava l’ex zona dei pirati di Island Garden e Greenwich. Mi passava la paura dei topi. Sono figlia della questione meridionale e i miei genitori hanno sempre avuto un’azienda di traslochi. Traffico con il movimento e la cleptomania da quando ero piccola e i pranzi della domenica li passavo seduta sul camion, con la salsa di pomodoro fatta tra i tir, i teatrini di carta igienica nell’aia di mia nonna e le foto porno negli angoli degli scatoloni dei traslochi. Conosco la gente attraverso ciò che decide di buttare, mi piace mettere le mani nella spazzatura. La considero una pratica d’amore sovversiva, che può reincantare il mondo.
Com’è il tuo rapporto con lo spazio e con gli oggetti?
Solitamente quando arrivo in un hotel, in una casa, in un giardino, in una tenda, inizia una particolare coreografia. Il mio corpo ritma gli spazi in un movimento che assomiglia a una danza, è così che inizio a conoscere il luogo dove mi trovo. Ogni oggetto diventa la pagina di un romanzo e io una guardiana, la direttrice d’orchestra di questo coro di voci.
Restando su Casa Cicca, il suo compito è quello di mettere in discussione il primario bisogno abitativo, cosa significa abitare?
Abitare e movimento sono strettamente connessi: con Casa Cicca Museum abbiamo provato a ripensare l’abitare non come esistenza confinata fra le mura di un appartamento, ma alla luce del rapporto che intratteniamo con le persone e con gli oggetti. Casa Cicca è la somma di quello che è stato lasciato da chi l’ha attraversata, in termini materiali, ma soprattutto tracce relazionali, legami fra persone che hanno condiviso l’esperienza di passare di qui, divenendo loro stesse progettiste.
Qual è il suo aspetto che più di tutti scardina la concezione canonica dell’abitare?
Una casa che si edifica come opera d’arte grazie alla relazione tra sconosciuti compromette in primis la distinzione fra spazio pubblico e spazio privato. Il contesto domestico, che di norma consideriamo luogo dell’intimità, degli affetti e dove in parte costruiamo la nostra persona, in questo caso accoglie continuamente alterità che condividono lo scardinamento di un canone prestabilito. Il modo in cui sono fatte le nostre case, l’organizzazione degli spazi e delle stanze, ripro- duce un preciso sguardo sul mondo. Casa Cicca Museum si pone come cantiere, partendo proprio dalla dimensione affettiva e intima, dal luogo in cui più di tutti dovremmo poter essere noi stessi.
I tuoi progetti si interrogano sul concetto di soglia, come interpreti i confini?
Arrivo da amori come l’Isola delle rose, il Wagon Station Encampment di Andrea Zittel, Cosey Fanni Tutti, Radio Caroline, Food di Gordon Matta Clark, tutte esperienze che hanno messo in discussione la figura autoriale attraverso la creazione di soglie, spazi di margine. Il confine è un laboratorio, una terra di mezzo, una ferita nella quale sguardi laterali decostruiscono il mondo per come lo abbiamo sempre conosciuto. Il confine è eversivo perché non esiste, se non nei corpi di chi lo vive, non ha regole, è definito per negazione. Pensiamo alla città, il confine fra centro e periferia non è né l’uno, né l’altra. Anche per questo Casa Cicca ha sempre trovato il proprio posto in luoghi costantemente appena dopo o appena prima rispetto alle zone più immediatamente etichettabili.
A Milano è possibile immaginare un abitare che si dia più nella relazione, nella ricostruzione di legami comunitari, piuttosto che nel rapporto con le quattro mura di casa?
Milano si è conquistata l’epiteto “Caffeina d’Europa” e invece le relazioni richiedono calma e cura, soprattutto quelle che si creano in quel confine di cui parlavamo. Allo stesso tempo le complessità di questa città la rendono potenzialmente un luogo ad alto tasso di creatività. Con Casa Cicca possiamo dire di essere sulla strada giusta. Il giorno della riapertura ho letto più di 200 nomi di persone che hanno sostenuto questo posto (sono tutti sul nostro sito), affetti senza i quali Casa Cicca non esisterebbe. Per Milano il punto forse non è tanto costruire legami, quanto riuscire a prendersene cura nella rapidità e nel cambiamento.
Intervista pubblicata su WU 121 (settembre 2023)
La foto in alto è di Tassili Calatroni
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