FEDERICO ALBANESE – A DIFFERENT PACE
Il suo nuovo disco, che esce il 7 febbraio, è (anche) un tributo alla bellezza estetica e intrinseca del luogo dove ha scelto di vivere in Italia, il Monferrato. Un posto che ha ritmi dilatati rispetto a una grande città, ma che si fondono bene con la sua visione della musica
di Enrico S. Benincasa
«Ho fatto talmente tante volte questa strada che stavo pensando di dedicarle un disco». Inizia così la nostra chiacchierata con Federico Albanese, che raggiungiamo al telefono mentre sta tornando in Italia da Berlino, città dove ha vissuto e iniziato la sua carriera artistica. Federico Albanese, pianista e compositore di musica neo classica, il prossimo febbraio pubblicherà Blackbirds and the Sun of October, il suo quinto album in studio nato proprio in Italia, nel Monferrato, luogo dove ha scelto di vivere. Un posto diverso da Berlino, ma che gli sta dando ispirazioni inaspettate.
Blackbirds and the Sun of October è il tuo quinto disco e lo hai realizzato in Italia, nel Monferrato, dove ti sei trasferito dopo tanti anni a Berlino…
Sì, anche se Berlino fa ancora parte della mia vita. È stata “casa” per 12 anni e c’è ancora tanto della mia vita professionale. Ci vado ancora spesso per lavoro, poi torno in Italia per stare con la mia famiglia. In questi giorni, per esempio, sono andato in macchina perché mi ero promesso di svuotare una cantina, e lì ho trovato cose che pensavo di avere perso, come una cassa enorme che contiene un sacco di merchandising (ride, NdR).
Nel trailer su YouTube di Blackbirds and the Sun of October fai quasi “un elogio della lentezza” di questa parte d’Italia. Che cosa ti sta dando questo posto?
Con la mia compagna ci siamo innamorati del Monferrato, un posto che non conoscevamo prima di frequentarlo. Non è ancora diventato una meta di turismo come le Langhe, è molto rurale e semplice sotto tanti aspetti. C’è proprio un ritorno alla semplicità del quotidiano, dal leggere il giornale al bar al chiac- chierare con le persone. Cose che in un contesto urbanizzato non ci sono, anche per un discorso di lingua.
È spiazzante questa differenza rispetto a una città come Berlino?
All’inizio sì, soprattutto venendo da realtà come Berlino e prima ancora Milano, ma ci si abitua in fretta. Era quello che cercavo, non volevo più sentire quella sorta di bisogno di “fare e disfare” che ti prende quando vivi in una città. È una dimensione nuova, che mi ha fatto bene come persona e anche dal punto di vista creativo, mi sta invogliando a scrivere tanta musica.
Ti aspettavi che questo luogo ti desse così tanto?
Sono rimasto un po’ stupito, perché fino a questo disco ho sempre cercato ispirazione altrove rispetto al luogo in cui vivevo. I miei precedenti album sono stati delle riflessioni, forse anche delle fughe dal cemento che mi circondava. Ed è una cosa che ritorna nella musica, se pensi a quanti capolavori sono stati scritti in realtà che non erano certo l’essenza della bellezza. Creare musica in un luogo così è diverso: inizialmente pensi che forse non sei in grado di farlo. c’è già tanta, troppa bellezza attorno. E invece continua a essere una ispirazione continua, ho scritto come mai nella mia vita.
Questa immersione totale nel Monferrato ti ha portato anche a mettere in musica il mito della sua fondazione in brani come The Prince and the Emperor e Adelasia. Quando hai scoperto Aleramo, il “fondatore” del Monferrato?
Inizialmente è stato un mio amico piemontese, molto interessato alla storia, a raccontarmi la storia tra mito e realtà di Aleramo, Adelasia e di Ottone, il padre di lei. Mi ha incuriosito subito e mi è capitato anche di visitare la tomba di Aleramo, che è a Grazzano Badoglio. Probabilmente ci sono miti di questo tipo in tanti luoghi d’Italia, io per diversi motivi mi sono imbattuto in questo e ho provato a tradurla in musica.
Rendere attuale questo mito con la tua musica è stata una sfida?
A me il mondo musicale pre-barocco e dei compositori post medievali interessa molto. A quel tempo si suonava improvvisando e non c’erano forme precise: la musica accompagnava le storie e aveva una diversa fruizione. Questa è stata una sfida, ma affrontarla è stata una gioia. Al quinto disco non era certo mia intenzione ripetermi, e andare nel Monferrato e poi mettere in musica queste cose è stato un tentativo di uscire dalla comfort zone. Sono tornato forse a una base più classica rispetto a prima, dove non mancavano quelle influenze che spontaneamente arrivano in un luogo come Berlino.
Come ti immagini Blackbirds and the Sun of October dal vivo?
È un disco che sarà piacevole da portare live perché è molto organico e spontaneo, contiene pezzi che posso suonare sul palco in modo fluido. Molti brani al suo interno è come se fossero stati registrati dal vivo, perché in tanti casi abbiamo deciso di tenere la prima take. In passato mi è capitato di dover fare un lavoro importante per traslare quanto fatto in studio sul palco, in questa occasione sono sicuro che sarà tutto molto più naturale.
È un disco che avrebbe senso proposto integralmente in un live, dall’inizio alla fine?
Avrebbe molto senso, anche se ci sono dei brani che non posso eseguire da solo perché ci sono altri strumenti come gli archi. Stiamo lavorando per pensare a come suonarlo con un ensemble o con un gruppo. Nei primi live che farò in Canada, Messico e Nord Europa sarò da solo, poi sicuramente lo proporremo con un contesto diverso.
Nella foto in alto: Federico Albanese, foto di Sara Spimpolo
Quest’intervista è stata pubblicata su WU 129 (dicembre 2024)
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