LORD SPIKEHEART – VIAGGIO NEL CAOS
Dal palco del WOS Festival di Santiago de Compostela, l’artista keniano si racconta: tra spiriti, identità africana e furia come linguaggio universale
di redazione di WU
Dopo il debutto con The Adept, Lord Spikeheart torna con Reign, un EP che espande i confini del metal e della musica elettronica in un crescendo di furia sonora. Il progetto, edito da Haekalu, label di Lord Spikeheart, e ricco di collaborazioni – da Brodinski a Vina Konda, passando per Iggor Cavalera, Jonas Karsten e Arka’n Asrafokor – unisce sottogeneri dell’heavy metal e sonorità noise, industrial e techno, costruendo una narrazione aspra, viscerale, ma al contempo lucidissima.
Dietro questo suono radicale c’è Martin Kanja, in arte Lord Spikeheart, figura di punta della scena heavy africana: con Reign, uscito lo scorso settembre, l’artista keniano continua il suo percorso di esplorazione spirituale e politica attraverso la musica, raccontando un’Africa non più rappresentata ma protagonista: brutale, mistica e in continua mutazione. In occasione del suo live al WOS Festival di Santiago de Compostela, lo scorso settembre, abbiamo incontrato Lord Spikeheart: per parlare di identità, di comunità e di quella energia creativa che trasforma dolore e rabbia in un linguaggio universale.
Usi diverse lingue nei tuoi testi. In che modo il passaggio da una lingua all’altra cambia il modo in cui il pubblico si connette con la tua musica?
Mi viene naturale, perché parlo fluentemente kikuyu, swahili e inglese, trattandole tutte come lingue madri. Questa pluralità mi permette di dialogare con un pubblico internazionale e, allo stesso tempo, di restare connesso alle mie radici, in particolare al Kenya, da cui provengo. Molti artisti africani incorporano lingue tribali o precoloniali, e credo che sia proprio questo a dare alla nostra musica una specificità culturale inconfondibile. Cantare in una lingua universale come l’inglese, invece, è importante per ampliare la portata dei messaggi, aprendo l’accesso a mercati più grandi e mondi sonori nuovi. Ma non sempre la connessione passa attraverso le parole: nei live, spesso è l’energia condivisa a unire il pubblico, anche quando il growling o lo screaming rendono difficile comprendere i testi.
Haekalu Records, la tua etichetta, sostiene la musica heavy in tutta l’Africa. Quali sono le maggiori sfide per gli artisti del continente?
In Africa manca ancora un’infrastruttura musicale solida. Ci scontriamo con l’assenza di etichette, studi professionali, distribuzione, editoria, agenzie di booking e tour ben strutturati. I problemi logistici — dai voli limitati alle strade dissestate — complicano tutto. Con Haekalu vogliamo colmare queste lacune e costruire un sistema musicale gestito interamente da africani. La musica non vive nel vuoto: serve un ecosistema sostenibile per farla crescere. Senza queste basi, il talento rischia di restare invisibile.
Hai dedicato i tuoi lavori più recenti alla tua bisnonna. In che modo la sua memoria ispira la tua arte politica?
La mia bisnonna si oppose con coraggio alle brutalità del sistema coloniale. Evoco il suo spirito — e quello delle persone che l’affiancarono — per restituire loro voce nel nuovo millennio, come una sorta di resurrezione dai registri della storia. La sua determinazione ha ispirato non solo la mia musica, ma anche la mia visione imprenditoriale. Il metal è un mezzo potente: se scegli di cantare growl, e creare mosh pit infuocati, fallo su temi universali, che parlino all’umanità intera. Io sto dedicando la mia vita alla musica come lei dedicò la sua alla sua comunità.
Il tuo sound fonde grindcore, industrial, techno ed elementi tradizionali. Come nasce questa miscela in studio?
Spesso parto da elementi elettronici e texture sonore, costruendo la traccia attorno a essi. A volte i produttori mi mandano brani completi, altre solo bozze che sviluppo, aggiungendo stem e suoni per creare l’atmosfera giusta.
Molti dei miei collaboratori provengono dalla scena elettronica: un mondo dove le sonorità heavy possono assumere infinite forme. Poi inseriamo strumenti dal vivo per dare corpo e dinamica. In studio seguiamo una sorta di istinto collettivo: togliamo ciò che è superfluo, per lasciare che il brano respiri. Tutto deve scorrere come un viaggio unico, coerente e imprevedibile.
Collabori spesso con artisti di diversi Paesi. Come gestisci queste sinergie creative?
Collaborare mantiene la musica viva e in continua evoluzione. Gli altri artisti mi completano, e io faccio lo stesso per loro. Si crea un senso di famiglia, basato su amore e rispetto reciproco.
Non ci sono ego o atteggiamenti da star: l’arte resta al centro. Ogni collaborazione è una lezione di umiltà, uno scambio che arricchisce entrambi. La musica è un viaggio senza fine, e lavorare insieme è ciò che la fa avanzare.
Le tue canzoni affrontano colonialismo e temi legati alla terra. Che ruolo ha la musica come strumento politico?
La musica è un commento sociale. Non possiamo ignorare il passato, ma nemmeno restarne prigionieri. Avere una voce significa usarla per il bene comune, restituendo qualcosa alle comunità d’origine.
L’arte trasforma il dolore in forza e offre uno spazio di riflessione: non impone, ma suggerisce. È una forma di auto-guarigione collettiva.
Che consiglio daresti ai giovani musicisti africani che non hanno molte risorse?
Crea con ciò che hai. Quando ho iniziato, avevo solo un laptop, un microfono e un divano — ma non importava. L’attrezzatura non definisce l’artista: tu sei già abbastanza. Tratta tutti con rispetto, pensa in prospettiva, e lavora ogni giorno come se fossi già dove vuoi arrivare. I limiti che ti impongono gli altri non sono i tuoi. Le difficoltà sono solo fasi temporanee: il vero valore sta nel motivo per cui hai iniziato, e nella persona che diventi lungo il cammino.
Qual è la tua visione per costruire una scena heavy africana solida e connessa al mondo?
Tutto parte dalle infrastrutture. Senza distribuzione, booking, tour, studi di qualità e un network di supporto, la musica non può crescere. Con Haekalu vogliamo creare un rifugio per gli artisti: un luogo dove concentrarsi sull’arte senza preoccupazioni economiche o tecniche. Un hub creativo per le nuove generazioni africane, capace di dialogare con gli standard internazionali.
Hai suonato al WOS Festival di Santiago de Compostela, un festival diffuso tra teatri, chiese e club. Come questi spazi hanno influenzato il tuo set?
Con il mio manager abbiamo costruito una scaletta che rispecchiasse l’atmosfera di ogni luogo, mantenendo sempre alta l’intensità. I sistemi audio di qualità ci hanno permesso di esprimere la piena potenza del suono. Era parte di un breve tour europeo: abbiamo presentato l’ultimo EP e alcuni brani inediti del prossimo album. Il pubblico, aperto e curioso, ha reso l’esperienza travolgente: io ho solo spinto sull’acceleratore.
Il WOS fonde cultura club e dimensione live. Come bilanci caos e quiete nei tuoi concerti?
Serve equilibrio. Le pause e i momenti più calmi permettono al pubblico di respirare e riflettere. Abbiamo strutturato la scaletta come un viaggio, con un plateau centrale nel mezzo del caos: un contrasto netto che amplifica tutto. Abbiamo aperto con TYVM e chiuso con un crescendo di pura energia. Il set deve essere un’esperienza, non solo una sequenza di brani.
Il festival ha ospitato artisti da contesti diversi. Questo scambio ha influenzato la tua performance?
Sì, moltissimo. Anche se la performance era pianificata, l’interazione con gli altri artisti mi ha dato nuova energia. È stato bellissimo rivedere vecchi amici, conoscere nuove persone e sentire l’amore del pubblico. Tutto è fluito naturalmente — e mi ha spinto a dare tutto, come se mettessi le viscere sul tavolo.
Come ha reagito il pubblico?
L’energia era incredibile: il pubblico ha amato il set, e si percepiva un senso di comunità reale. Eravamo tutti parte dello stesso viaggio. Ho capito che la musica heavy africana è accolta con entusiasmo: è grezza, sincera e liberatoria. Come un parco giochi di sabato, senza scuola il giorno dopo! (ride) Voglio dire ai miei fratelli e sorelle in Africa di continuare a spingere: la nostra musica porta guarigione.
Dopo il festival, come immagini i tuoi live futuri?
Voglio trasformare i miei concerti in esperienze immersive, veri mondi da vivere. Sto collaborando con i direttori creativi Spiros Kokkonis e George Roussos di NMR.CC per costruire scenografie e visual che amplifichino l’energia dal vivo. Immagino mosh pit infiniti, luci e suoni che uniscono il pubblico in uno stato di catarsi collettiva. La mia ambizione è creare momenti di pura trascendenza sonora — e portarli ovunque.
Nella foto in alto: Lord Spikeheart, Credit Fernando Schlaepfer
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