VISIVA #01 – DEM E IL PENSIERO SELVATICO
Marco Barbieri in arte DEM è il primo ospite di Visiva, la nuova rubrica di WU dedicata a tutte le forme di espressione dell’arte. In questa sua intervista ci parla delle sue maschere, dell’uomo nero, dei murales che possono proteggere la case di chi ci abita e di come si possa essere cittadini del mondo al di là di dove si decida di vivere
di Emma Cacciatori
‘Visiva’ è una rubrica che si occupa di mostre, eventi, progetti sul territorio e multimediali legati all’arte. Più che fornire il rendiconto di quanto si sa che c’è, fa vedere quanto sta per esserci, lasciando immaginare quanto sta per cambiarci.
Marco Barbieri, ovvero DEM, è un artista a dir poco eclettico, che si aggira nelle vie delle nostre città lasciando le tracce e i simboli di una sacralità arcana. Li lascia sui murales delle fabbriche dismesse e delle case, nelle sue installazioni, nei dipinti e disegni, nelle sue ceramiche, nelle maschere che indossa come uno sciamano postmoderno. DEM trova gli ingredienti della sua arte-medicina nei suoi antenati primitivi e in un costante contatto con la natura. Nella ricerca di un senso profondo e selvatico, non addomesticato.
Partiamo dai murales che hai realizzato a fine estate a Cotignola, per ricordare l’antropologo Ernesto De Martino, che in quel paese si rifugiò come sfollato e perseguitato politico e dove iniziò a scrivere Il mondo magico. In quel contesto, tu hai voluto indicare il filo rosso dei tuoi interventi, carichi di riferimenti mitici, nel tema della “protezione” . È perché Cotignola ha protetto de Martino e il suo manoscritto o perché pensi che il mondo magico possa proteggere tutti noi?
Sinceramente quando mi avevano chiesto di fare un lavoro a Cotignola legato a De Martino, ci ho messo un mese, un mese e mezzo prima di arrivare a questa cosa della protezione. Mi sono semplicemente posto delle domande: da un lato c’era la città di Cotignola che ha protetto De Martino, dall’altro lato mi veniva in mente che cosa potevo dare io alla cittadinanza. Poi, più che per il paese, erano lavori, sviluppati singolarmente per ogni famiglia. Ne ho fatti parecchi, ma il modus operandi è stato proprio quello di entrare nelle case delle persone, stare con loro e, confrontandomi, cercare di trovare quali potessero essere i simboli di protezione legati a ogni singolo gruppo famigliare. Chiunque ha qualche piccolo oggetto, qualche simbolo, presente nella stessa casa a cui dà un significato scaramantico. La città ha protetto De Martino e questo mondo magico può proteggere anche noi.
Come testimonia ABC DEM, la ricchissima antologia delle tue opere edita l’anno scorso, la street art occupa solo una parte della tua produzione artistica, che spazia dalla pittura alla grafica, dalle installazioni alla ceramica, alla produzione di maschere. Come convivono queste tue diverse anime? Oppure non convivono, ma si alternano in diversi momenti della tua vita?
Queste anime e questi media che utilizzo convivono, perché convivono all’interno dell’evoluzione della mia persona e del mio percorso artistico. Un esempio con le installazioni: da dov’è che sono nate? Passavo parecchio tempo in mezzo alla natura, collezionando degli oggetti che trovavo in giro e che poi mi servivano per andare a fare dei miei disegni in bianco e nero. Quando, a un certo punto, ho iniziato ad averne tanti di questi oggetti naturali, ho iniziato anche un po’ a giocarci, ad assemblarli in casa. Prima sono nati dei manufatti più piccoli, poi un giorno mi son detto: «Cavolo, ma sarebbe bello riuscire con la stessa logica a creare cose e personaggi più grandi». Le prime installazioni sono arrivate in questo modo. Lo stesso vale per le maschere, prima semplici oggetti da esporre, poi diventate creature di un mondo vivo grazie ai video, o le sculture, che presentano la stessa cifra evolutiva dei murales.
In qualsiasi direzione tu rivolga la tua creatività, si sente la ricerca di profondità , di qualcosa nascosto sottoterra, in “tane” , nel segreto di un campo, di un albero, di un menhir. Ma ha senso parlare ancora di presenze mitiche, di genius loci, per esempio qui da noi, in una natura ovunque snaturata?
Secondo me l’unico vero, chiamiamolo, segreto (ma poi non è un segreto), è il modo in cui uno si va ad approcciare a quello che lo circonda, a come guardi, a cosa guardi e a cosa cerchi. Io mi sono, uso la parola “rieducato”, nel senso che, a furia di stare in mezzo alla natura, ho cercato di riprendere a osservarla in una maniera che non fosse quella frettolosa e superficiale dell’uomo contemporaneo, ma “abbassandomi al livello della terra”. In questo modo ti accorgi che la natura rimane comunque la stessa, con la stessa forza, nonostante sia snaturata, ridotta spesso a arredo urbano. Io arrivo dalla campagna della bassa padana, abito vicino all’Adda e al Po. Lungo il corso di un fiume, dove non si può coltivare, la natura cresce in tutta la sua potenza. Lì, se uno si mette ad ascoltare e ad osservare, il genius loci lo trovi, perché è la natura stessa che parla o ci parla. Poi mi hanno aiutato anche i ritiri che ho fatto in Amazzonia, in luoghi dove la natura è veramente potentissima. In Brasile gli indios mi hanno portato nella foresta secondaria e la prima cosa che io ho percepito è stata di sentirmi un globulo bianco, o meglio come un virus. Diciamo che la mia percezione è stata quella di entrare in un corpo umano, di entrare e far parte di tutto quel mondo estremamente naturale, dove ogni singola cosa ha il suo scopo. Non per niente da quello mi sono fatto un sacco di domande su quale potrebbe essere il motivo della presenza degli esseri umani sulla terra.
Ti definisci un “raccoglitore”, che ama sporcarsi con tutto ciò che è materico: foglie, terra, legno, ossa, pietre. Ma per dare vita ed energia a tanta materia inerte devi essere anche un grande conoscitore di altri artisti stregoni, che l’hanno fatto prima di te. A chi, in particolare si ispira la tua ricerca?
Diciamo che in ogni mio lavoro c’è un po’ tutto quello che mi hai elencato. C’è lo studio di altri popoli e introspezione. Prendiamo l’uomo nero. Non è roba da selvaggi. Impersona la paura irrazionale che prova ogni essere umano di fronte a tutto quello che non riesce a spiegarsi. Per rappresentarlo ho dovuto lavorare anche sulle mie paure, che si manifestano anche a livello fisico, nel mio corpo, negli stati d’ansia, quelli che prendono magari la bocca dello stomaco. Una volta tirate fuori queste figure, materializzate negli oggetti di una mostra, succede spesso una cosa inaspettata: tanti ci vedono i loro uomini neri e mi mandano audio messaggi in cui mi dicono: «Guarda che quello che hai creato è lo stesso personaggio che mi tormentava da piccolo». Da dove mi arrivano queste immagini? Anche per me escono fuori dall’infanzia. Io ricordo tanti disegni che facevo da bambino di questi uomini con le corna. Certamente avevo una fascinazione per le maschere e andavo per boschi a raccogliere legnetti. Solo che allora immaginavo soltanto dei personaggi, oggi li materializzo. I rituali ancestrali, i giochi ironici dei surrealisti? Certo, ci sono, li studio, ma, soprattutto, mi lascio andare, liberamente. Cerco di vedere tutto liberamente, con gli occhi di quando giocavo da bambino.
Nelle figure del tuo immaginario è costante la presenza della metamorfosi e del travestimento. Quanto di gioco surrealista e ironico e di ritualità ancestrale vive nelle tue sirene e donne chiocciola, nei tuoi omoni neri e uomini piante?
Se tu vai a osservare la materia, vedi che non è inerte, nel senso che anche gli stessi materiali naturali continuano in un modo o nell’altro ad evolversi. Per esempio, un albero, una volta che muore, si trasforma in un’altra cosa: ci vivono gli insetti, che mangiano, si riproducono e a loro volta diventano cibo per gli uccelli, che ci fanno un nido, come i picchi, così che lo stesso tronco, decomponendosi rivive; la sua morte permette la vita di tutta una serie di altri esseri viventi in un continuo flusso. Molte popolazioni in giro per il mondo, in Sudamerica, in Africa e in Australia, che vivono a stretto contatto con la natura, nella loro spiritualità e religioni colgono questi passaggi e l’ energia, che sta sotto queste trasformazioni della vita. La mia ispirazione arriva dall’osservare come questi popoli si sono relazionati con la natura. E poi vado a prendere anche quelli che vengono considerati matti, i protagonisti della cosiddetta Outsider Art. Loro producono la vera arte per l’arte, perché non vanno alla ricerca di un riscontro o di un pubblico. Come quelle dell’arte primitiva, le loro opere tirano fuori ciò che veramente una persona o una comunità hanno dentro, senza filtri. Questi artisti, quasi sempre sconosciuti, sono vicini alla natura, ne fanno parte. Il loro lavoro mi stimola e con le mie cose vorrei riuscire a trasmetterne la genuinità e la forza.
Nella tua vita di artista hai viaggiato molto, hai esposto in Svezia, a Los Angeles a Hong Kong. E in Italia, naturalmente. È qui che ti trovi meglio?
Mi considero un nomade. Nel senso che ho sempre abitato in questo piccolo paese, sono sempre stato qui come base, ma sono sempre scappato via, da quando avevo dodici anni. C’è sempre un rapporto diciamo di amore e di odio per la mia terra e per l’Italia in generale, ma non ho mai avuto un posto in cui mi sono veramente trovato meglio. Per un po’ di anni sono stato un po’ irrequieto. Sono una persona estremamente curiosa e ho fatto tanti viaggi, che mi hanno permesso di rapportarmi con gli altri. Ho anche pensato di trasferirmi in una città, dove magari avrei avuto più possibilità a livello professionale, ma ho fatto un ragionamento: in una città avrei senz’altro frequentato altri artisti, cosa che mi piace senz’altro, ma che credo mi avrebbe alla lunga limitato. Qui al mio paese tutti mi conoscono da quando sono piccolo e io mi sono sempre messo in relazione con tutti: mi piace passare il tempo con gli immigrati, con gli agricoltori, con chi la pensa e non la pensa come me, perché mi piace confrontarmi con gli altri, capire il loro punto di vista. Secondo me, più uno cerca di immedesimarsi negli altri più riesce a percepire una realtà più profonda e a avvicinarsi anche alla natura. La cosa che mi piace dell’Italia è che, sia a livello paesaggistico che storico, offre un patrimonio immenso, da dove possono attingere i miei studi e le mie idee. E poi è sempre stata un mix di popoli che l’hanno attraversata, dal Mediterraneo al Nord Europa e anch’io mi sento un mix di tantissime cose. Per non parlare della sua natura, che mi è affine.
Nella foto in alto: Mask for OMONERO exhibition @Mercemarcia, aprile 2019. Foto di Francesco Grecchi
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