ALBERT SERRA – PACIFICTION
Albert Serra ci racconta ‘Pacifiction’, in uscita nelle sale italiane il 18 maggio, dopo essere stato presentato ai festival di Cannes e Torino
di Davide Colli
Nella hall dell’Hotel Sina De La Ville, a pochi passi dal Duomo di Milano, Albert Serra, con i suoi fedelissimi occhiali da sole, ci attende per una chiacchierata su Pacifiction – Un Mondo Sommerso, incentrato sulle indagini a Tahiti dell’alto commissario della Repubblica de Roller (Benoit Magimel), tra personaggi enigmatici e bizzarri, riguardo delle voci sulla ripresa di test nucleari segreti sull’isola.
Con Pacifiction abbracci un contesto contemporaneo e abbandono il film in costume. Se opere come La Mort de Louis XIV o Liberté rappresentano quasi dipinti di “nature morte”, ma in movimento, dotate di temporalità, a quale corrente artistica accosteresti invece quest’ultimo film?
Hai perfettamente ragione. Se per esempio il mio film precedente era molto statico, frontale, in questo caso mi sono avvicinato alla tradizione della côté romanesque, a Stendhal, dove ci sono dei movimenti di persone, quasi impercettibili, piccole peripezie tra personaggi senza un grande intreccio narrativo. Non una grande storia drammatica, ma una storia che avviene completamente nella psicologia dei personaggi.
Nell’osservare i personaggi del film vagare senza meta e nel sentirli domandarsi se si trovano in un cerchio o in una spirale, per la struttura di Pacifiction sei stato influenzato da romanzi della tradizione metamoderna come quelli di Don DeLillo o Thomas Phynchon?
In realtà non particolarmente questi grandi autori, ma questo sentimento che descrivi l’ho ripreso da alcuni film degli anni Settanta, che riflettono il disagio della fine del roseo decennio precedente: l’illusione di un’apertura mentale e di nuovo mondo, completamente collassata. Tutto negli anni Settanta diventa frutto di sospetti e ognuno cerca di capire chi sia al comando e chi abbia permesso il fallimento di questo sogno. Quindi, l’idea della paranoia, l’ignoranza su chi stia governando il mondo e verso quale direzione.
È il tuo film più narrativo, pur non abbandonando la volontà di contemplazione e la staticità tipiche dell’installazione. Esiste, quindi, un connubio/equilibrio tra cinema narrativo e non nella tua filmografia?
Proprio questo è il punto del film. Pacifiction vuole andare oltre a ciò che ho fatto prima, essere più narrativo. Tuttavia, con l’elemento narrativo, venivano meno alcuni punti di forza dei film precedenti. Non è stata un’impresa facile, ma ho provato a congiungere questi due aspetti fortemente contrastanti. Una variabile che migliora un film narrativo peggiora, invece, un film più contemplativo. L’equilibrio da mantenere tra questi due elementi è molto delicato, ma magicamente, non so come, sono arrivato a un risultato che le persone stanno, apparentemente, apprezzando molto, anche se il film è molto lungo. Il pubblico segue la trama, è intrigato da essa, ma al tempo stesso è come se stesse fluttuando. Come nei miei film precedenti, si ha l’impressione di stare davanti a un oggetto all’interno del quale è richiesto di entrare per comprenderlo. Un vero e proprio mondo dentro questo oggetto senza un ordine prestabilito e che non ha ambizione di insegnare nulla allo spettatore.
Il titolo Pacifiction richiama, soprattutto verso il finale, a una pace fittizia, costruita per nascondere altro: quanto la situazione reale corrisponde a quella del film, ovvero di una pace illusoria, tenuta in piedi per celare tensioni e tumulti?
Il titolo, in senso letterale, fa riferimento ad un Pacifico fittizio, ma la tua interpretazione è molto interessante. Certamente alcune tendenze che vediamo nel film hanno un corrispettivo nel mondo di oggi. C’è la globalizzazione, il capitalismo, che dovrebbero garantire la pace. Tuttavia ci sono comunque numerose tensioni, tra individui, ma anche tra interi Paesi, come la diatriba sull’energia nucleare o il conflitto russo-ucraino. L’interesse nel conflitto geopolitico è senz’altro presente nel film, che prova anche a mettere alla berlina e in crisi il potere militare. La marina militare arriva e se ne ritorna da dove è venuta, sembra di trovarsi in un sogno, ma non troppo distante dalla realtà. Anche all’interno del singolo Paese le fratture esistono e sono in crescita, seppur con il clima di apparente pace arrivata quando si è accettato, di comune accordo, il capitalismo globale. Eppure la disuguaglianza tra classi sociali differenti è quasi ai massimi storici e ogni anno non accenna a fermarsi. La democrazia e i partiti di sinistra esistono in ogni Paese, ma non sono comunque in grado di invertire questa tendenza. C’è qualcosa di estremamente oscuro in questo scenario, che rende sospettose le persone, esattamente come nel film. Ci si chiede per chi lavorino certe persone e cosa abbiano veramente in mente: nel film succede lo stesso identico procedimento nei confronti di de Roller. Pacifiction parte, quindi, da un ridicolo incipit, ovvero la possibile ripartenza dei test nucleari, costruisce una metafora su chi si cela dietro un imponderabile potere. Credo di essere stato anche un minimo visionario, poiché, nel momento in cui lavoravo allo script, non c’era alcun conflitto in Ucraina, così come non era ancora iniziato durante le riprese. Nel frattempo questo avvicinamento al nucleare deve essere tornato di nuovo di moda. Quando ero giovane nessuno voleva energia o armi nucleari e ora, negli ultimi anni, è cambiato tutto.
De Roller appare spesso come un protagonista, dal comportamento al portamento, quasi comico, soprattutto rispetto al ruolo che si trova a ricoprire. Come hai lavorato a questa contrapposizione?
Penso che De Roller stesso sia una vittima della tendenza delle figure politiche a perdere credibilità e dignità agli occhi del popolo. Non sono necessariamente cattive persone, ma sono all’interno del sistema e assumono questo tipo di aurea. La gente ha ancora bene in mente figure buffonesche come Donald Trump o Berlusconi qui, a metà tra il clown e il genio, anche perché entrambi sono diventati molto ricchi. Hanno percepito l’umore del popolo e come controllarlo. Ora il nostro mondo, così come quello del film, rende impegnativo comprendere come reagire o, semplicemente, capire chi è buono e chi cattivo, chi è ridicolo e chi no, cosa è populismo e cosa no. Questo personaggio credo rifletta questo disorientamento, questa mancanza di punti fermi, valori e certezze. Al tempo stesso credo che questo tipo di protagonista sia molto più interessante rispetto ai personaggi di venti, trent’anni fa: ora si parla di una miscela tra bene e male, al cui interno essi quasi non sono distinguibili, anche perché l’idea di persone completamente buone o completamente cattive è irreale. In questo periodo storico ognuno di noi si sente più intelligente del prossimo, ma al tempo stesso non siamo mai stati così deboli, perché non puoi fidarti di nessuno. De Roller incarna perfettamente questo mondo, lacerato da conflitti ridotti a voci di corridoio. L’intera narrazione della guerra in Ucraina arriva a noi esterni come un vociare, sussurri di informazioni che si contraddicono tra loro, come la questione del rifornimento delle armi. Il tutto è gestito in maniera estremamente strana e confusionaria: una diplomazia permanente che continua in un cerchio permanente.
O forse in una spirale discendente.
Certo, anche se credo sia più una spirale ascendente.
Nella foto in alto: Albert Serra nel 2020 ai Premi Gaudì, foto di Guillem Medina
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