BIENNALE 80 – FERRARI
Tra i titoli di punta della corrente edizione del Festival di Venezia, l’ultima fatica di Michael Mann, trasposizione della biografia datata 1991 dalla lunga lavorazione e che si concentra sugli ultimi anni di Enzo Ferrari (Adam Driver), arriva dopo otto anni di silenzio
di Davide Colli
L’atmosfera che si respira in Ferrari è funerea e funesta, suggerendo un sentimento di morte incombente e inarrestabile che domina durante l’intero lungometraggio, dalla palette cromatica grigiastra e sbiadita. Tale presagio conferisce forma e senso all’opera di Mann, tragedia incentrata sul disperato tentativo di un’icona di non scomparire.
Adam Driver, corpo mostruoso ideale su cui plasmare un Enzo Ferrari al tramonto, diventa anche portavoce tramite la quale esprimere la fragilità dei simboli, ieri quanto oggi. Proprio a partire dalla sua sostituzione digitale all’interno dei filmati d’archivio del Ferrari pilota, Mann costruisce la parabola discendente di un’immagine, che inizia ancor prima dell’apparizione del titolo, con l’applicazione del volto artificiosamente nitido della star hollywoodiana dentro il granuloso documento del passato.
Driver diventa poi ingessato e goffo nel districarsi dentro una Modena fittizia, all’interno della quale prova in ogni modo a rilanciare il proprio marchio dal fallimento. Cerca suoi sostituti tra i piloti della sua scuderia, nuovi modelli perfetti che possano incarnare l’idea Ferrari davanti a un pubblico e una stampa esigenti. L’operazione si traduce in un giocoso massacro, esaltazione di una computer grafica di esasperata imperfezione, che assume le sembianze di uno scenario bellico: ognuno di essi viene mandato al patibolo tra gli impervi tracciati allo scopo di raggiungere un immateriale concetto di vittoria, necessaria per resuscitare un’icona decadente, o per lo meno quel che ne rimane del suo deformato simulacro.
Accompagnando questo idolo alla sua irrevocabile fine, Mann contrappone ancora una volta vecchi e nuovi modi di comporre immagini, un utilizzo ossimorico degli espedienti tecnici, dimostrando la voglia del maestro statunitense di continuare a sperimentare con soluzioni anche canoniche (la macchina a mano che domina durante i piani ravvicinati, stabilizzandosi spesso e volentieri nelle sequenze più concitate di corsa).
Ferrari contiene, quindi, una lampante dichiarazione di intenti da parte del proprio regista: la salvezza dal dimenticatoio per il protagonista, non a caso, si trova nei ricordi, frammenti di flashback privi di sbavature proprio perché ripresi in digitale, resistenti al tempo in quanto indipendenti dal proprio calco, quasi invitando il medium cinematografico ad affidarsi alla medesima via di rinascita.
Nella foto in alto: Adam Driver in ‘Ferrari’, foto di Eros Hoagland
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