SATOSHI FUJIWARA – ANIMA EUROPEA
I canoni della fotografia contemporanea hanno limiti tecnici, formali, editoriali. In particolare in un’Europa che l’autore di EU, nato e cresciuto in Giappone ma formatosi professionalmente nel Vecchio Continente, guarda con occhi da straniero pur senza sentirsi giapponese
di Alessandra Lanza
Dimenticate l’identità fotografica europea. L’immagine contemporanea, negli occhi di Satoshi Fujiwara (Kobe, Giappone, 1984), è schiava di una serie di regole e vincoli che vanno infranti. EU, la mostra antologica da poco inaugurata presso l’Osservatorio di Fondazione Prada in Galleria Vittorio Emanuele II, visitabile fino al 16 ottobre, riflette sull’assuefazione all’immagine e sul predominio degli standard derivante dai sistemi di controllo in Europa, dalle tecnologie a disposizione, dal sistema dell’editoria e dai canoni di pubblicazione. Diversi gli strati di realtà che concorrono nel definire un’immagine convenzionale, il gusto medio attraverso cui viene raccontato uno scenario europeo in cui in discussione ci sono stabilità e sicurezza. Curata da Luigi Alberto Cippini in un allestimento di Armature Globale, la mostra è una successione volutamente disordinata di frammenti, colori, dettagli, pose innaturali di esseri naturali accennate, pattern astratti da scene più ampie, in cui è palpabile una certa violenza. Assemblate al muro con chiodi, guide metalliche, velcro e nastro isolante, accatastate e caotiche, le immagini di Fujiwara si ispirano all’allestimento di Herbert Bayer per la mostra The Road to Victory: a Procession of Photographs of the Nation at War del 1942 al MoMA di New York. Se il compito – o la conseguenza inevitabile – di una macchina fotografica e di chi la impugna è quello di selezionare un pezzo di mondo, Satoshi Fujiwara lo prende alla lettera per frantumare il sistema e metterlo in crisi, in un dialogo necessario con le forme meno evidenti di propaganda contemporanea.
L’esposizione Road to Victory è stata per te importante nel pensare l’installazione di questa mostra. In generale, quanto conta la parte espositiva nel tuo processo artistico?
Attraverso metodi espositivi innovativi, come l’uso del photo storytelling sviluppato in ambito fotogiornalistico e il modo di dare un certo stimolo allo spettatore utilizzato in pubblicità, l’esposizione Road to Victory ebbe grande successo a quei tempi, come la propaganda. I social media si sono oggi insinuati all’interno della società e non esiste forma di propaganda più semplice e naturale di questa. Tuttavia, l’effetto che hanno le immagini o le informazioni di tipo visivo sulle persone riesce a essere ancora potente. Per EU abbiamo deciso di decostruire le varie opere in serie che avevo realizzato in precedenza e assemblato frammenti di fotografie, in modo che le immagini non possano essere lette in sequenza.
Hai lasciato il Giappone per vivere in Europa. Non c’è nulla che ti manca del tuo Paese e dell’immaginario nazionale?
No, non credo, semplicemente perché non ho subito alcuna influenza da parte dell’immaginario giapponese. Se dovessi scegliere una parola, direi che abito l’Europa come uno “straniero”. Allo stesso tempo sento di non essere un fotografo giapponese, ma piuttosto un fotografo che arriva dal Giappone.
Quando ti sei reso conto della necessità di staccarti dal modo comune di fare immagini che abbiamo qui nel Vecchio Continente?
Da quando ho cominciato a lavorare come graphic designer ho capito di essere molto ispirato dal modo europeo di fare immagini, che tuttora mi piace. Ma non sono un europeo. E questo è uno svantaggio, che però può trasformarsi in vantaggio: in quanto straniero posso infatti guardare la società europea in maniera più obiettiva.
Qual è la tua massima aspirazione di fotografo?
È molto semplice: mi interessa sapere che cos’è la fotografia nel mondo contemporaneo e allo stesso modo che cosa sarà in futuro.
Che tipo di ruolo credi possa avere la fotografia nella nostra vita?
Permetterci di visualizzare qualcosa che in quanto esseri umani non potremmo altrimenti vedere o di cogliere qualcosa che altrimenti ci perderemmo.
Qual è la prima fotografia che ti ricordi di aver scattato, a che momento risale ma, soprattutto, perché l’hai scattata?
Non ho uno di quegli aneddoti tipici dei fotografi, della serie: «mio padre era un fotografo amatoriale» o «mio nonno mi mise in mano una macchina fotografica analogica quand’ero bambino». Da quando ho cominciato a lavorare in un ufficio di graphic design mi sono progressivamente interessato all’effetto che le immagini e le informazioni di tipo visivo sortiscono sulle persone e sulla società in generale. In effetti non ho ancora pienamente realizzato di essere un fotografo!
C’è qualche artista che Satoshi Fujiwara ammira per davvero?
Nutro un’ammirazione profonda nei confronti del regista Michael Haneke. La mia prima grande serie dal titolo Code Unknown (esposta nel 2016 alla Deutsche Oper Berlin, NdR) è un omaggio a lui.
Originariamente pubblicata su WU 80 (luglio 2017). La foto in apertura è di Alessandra Lanza. Segui Alessandra su Instagram e Linkedin
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